Italia

Terzo settore, una riforma che va nella giusta direzione

Terzo Settore: una realtà con 301.191 enti non profit presenti oggi in Italia (erano 235.232 nel 2001). Vi prestano servizio oltre 4.700.000 volontari, con la creazione di 957.000 posti di lavoro di cui 681.000 dipendenti. Il Pil generato ogni anno è di 67 miliardi di euro, pari al 4,3% di quello nazionale. Ne parliamo perché il premier Matteo Renzi ha rese pubbliche le «Linee guida per una riforma del Terzo Settore», annunciando che entro il 13 giugno verranno raccolti suggerimenti e nelle due settimane successive il governo predisporrà il disegno di legge delega, da approvare nel Consiglio dei ministri del 27 giugno 2014. Nelle «linee guida» ci sono varie novità: sostenere il Terzo Settore «con adeguati incentivi», valorizzare «la sussidiarietà verticale e orizzontale», far decollare l’impresa sociale, ripristinare il «servizio civile» universale per giovani dai 18 ai 29 anni (100mila all’anno), ampliare il sostegno economico pubblico e privato, fiscalità di vantaggio, 5 per mille, titoli finanziari etici detassati. Su tutto, si chiede trasparenza, bilanci pubblici, aggiornamento delle leggi 266/91 (volontariato) e 383/2000 (associazioni di promozione sociale), creazione di una specifica Authority. Per commentare questa ipotesi di riforma il Sir ha intervistato il portavoce del Forum del Terzo Settore, Pietro Barbieri.

È sorpreso dai contenuti delle Linee guida per la riforma del Terzo Settore?

«No, assolutamente. Era stata annunciata da Renzi la volontà di fare interventi di riforma strutturale e abbiamo partecipato al gruppo di lavoro promosso dal ministro Boschi per arrivare a questo risultato. Ci aspettavamo un documento più di tipo elettoralistico e invece è uscito un testo attento anche a questioni tecniche, cosa che valutiamo positivamente».

In che modo la proposta di Renzi appare così positiva?

«Ridisegna un quadro nuovo, più attinente, meno attento alle regole che devono certificare la singola organizzazione, ma orientato a come accompagnare lo sviluppo dell’impegno civico. In ogni territorio e ambito i cittadini conoscono associazioni e cooperative che si occupano delle persone in maggior difficoltà, o dell’ambiente, o di circoli ricreativi e di quelli per i giovani, promuovendo capacità e innovazione, anche sviluppando talenti. Tutto questo nelle linee guida viene rafforzato, rinnovato e rilanciato».

Il Terzo Settore non «vive d’aria». Ha bisogno di fondi e finanziamenti. Cosa dite al riguardo?

«L’aspetto finanziario è importante. Fare azioni di welfare, di promozione culturale e dell’ambiente esige risorse, ma queste azioni sono le meno finanziate. Sicuramente meno rispetto alle imprese profit. Ci si deve invece rendere conto che sono ambiti dove si può produrre buona occupazione. Penso al tema della povertà oggi, un problema gigantesco che sta attraversando ormai non solo le fasce degli immigrati e non riguarda solo il Sud del Paese. Mi pare che il Terzo Settore sia, sotto questo aspetto, uno strumento straordinario che rigenera la capacità d’includere chi è in difficoltà, chi ha perso il lavoro o lo cerca, e offre la possibilità che queste persone si emancipino».

Qual è la genesi culturale del Terzo Settore?

«Il volontariato interpreta un’idea di fraternità, che nella storia dell’Occidente è la terza gamba del motto liberté, égalité, fraternité della rivoluzione francese. Tra chi propende per il liberalismo, e chi per l’egualitarismo, la terza opzione, quella della ‘fraternità’, è alla base della scelta del Terzo Settore, che punta alla vicinanza all’altro, alla prossimità, all’aiuto. Ciò definisce l’impegno civico nella cooperazione, nelle attività educative e nell’impresa sociale».

Le imprese del Terzo Settore rifiutano l’idea di «fare utili»? E se li fanno, come li usano?

«Le nostre imprese si definiscono ‘no profit’ e non distribuiscono utili. Altrimenti si rischierebbe che il tipo di attività che mettono in campo divenga preda del settore in cui operano. Concepiscono, invece, il concetto di equilibrio dell’impresa. Andare in perdita significherebbe rendere non utilizzabile lo strumento di partecipazione civica e di sussidiarietà. C’è un dato su tutti che spiega questa convinzione e ce lo dicono le banche: le sofferenze che registrano sul settore ‘profit’, a seguito della crisi, sono a 2 cifre; il ‘no profit’ invece è al 2% massimo. Stiamo parlando di estrema credibilità del settore, senza sbilanci economici».

In un’era di «tagli» alla spesa pubblica, chiedete e chiederete «aiuti di Stato»?

«Non bisogna pensare al settore come a un semplice fornitore d’opera o come a dei sub-appaltatori dello Stato. Invece la partecipazione dei cittadini è un contributo straordinario al bene pubblico. Perciò si devono trovare spazi nuovi per gestire beni comuni e lavorare su beni relazionali, nella direzione della fratellanza e della riduzione delle diseguaglianze».