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Troppo silenzio sulla droga. La denuncia di don Picchi

di Chiara Santomiero«Sono don Mario Picchi. Vi ricordate di me? Ho passato la mia vita a combattere la tossicodipendenza. Chi parla o vuol parlare ancora di droga?»: comincia così l’appello diffuso dal fondatore del Ceis (Centro italiano di solidarietà), preoccupato dal silenzio che sembra calato sul problema droga, come se avesse perso ormai di rilevanza. Abbiamo chiesto a don Mario Picchi i motivi del suo appello.

«Il Rapporto del governo sulla droga presentato lo scorso 30 giugno – spiega don Picchi – è passato sotto silenzio ed è, invece, pieno di cifre impressionanti, di conferme della gravità del problema e non di smentite. Si legge che i morti sono scesi a 516: ma vi pare poco? Gli utenti dei servizi per tossicodipendenti sono stati nel 2002 circa 175 mila, secondo il Ministero della salute. Alla metà degli anni ’80 erano intorno ai 30 mila. Oggi sono quindi 6 volte più numerosi di allora». «Nessuno – prosegue don Picchi – conosce le dimensioni del sommerso, cioè il numero di coloro che avrebbero bisogno d’aiuto ma si tengono lontani dai servizi. E se questo ‘sommerso’ un tempo dipendeva anche dal fatto che i servizi erano pochi e male organizzati, oggi ha proporzioni enormi».

La sua preoccupazione riguarda soprattutto le nuove forme di dipendenza?

«No! Sono preoccupato per qualsiasi forma di dipendenza, da droghe di ogni tipo, politossicodipendenze, abuso di alcool, abuso di psicofarmaci, comportamenti compulsivi legati ai disturbi dell’alimentazione, al gioco d’azzardo, all’abuso di televisione e di Internet. E sono preoccupato dal fatto che tutto ciò viene sempre più considerato come normale, compatibile con una società sana e vitale, non in contrasto con i princìpi e i valori morali che dovrebbero guidare non solo i cattolici ma ogni uomo di coscienza e responsabilità».

La responsabilità del disorientamento giovanile sembra coinvolgere tutti: famiglie assenti, insegnanti demotivati, sport diseducativo, informazione squalificata. I ragazzi sono davvero così fragili e privi di capacità critica?

«I giovani oggi, anche i bambini, sono più svegli, intuitivi, forse anche più intelligenti di come eravamo noi adulti alla loro età. Hanno altri strumenti per documentarsi e conoscere il mondo. Ma sono più soli e disorientati, perché troppi valori non vengono più proposti loro come fondamentali, ad esempio la responsabilità, l’onestà, la sobrietà intesa come senso del limite. Però non esistono i giovani come categoria unica. Io mi preoccupo per i più fragili tra di loro, per quelli che devono entrare nel branco per non restare soli e disperati, e magari mettere in atto comportamenti che non condividono. Penso a quelli con famiglie disgregate, disfatte e rifatte, ingarbugliate… Penso a quelli per cui la scuola è una specie di carcere da cui fuggire appena possibile. Dobbiamo occuparci anche di loro, farli sentire partecipi e protagonisti della vita, offrirgli adulti di riferimento credibili, autentici, onesti, e imparare ad ascoltare i loro bisogni, i loro desideri, le loro sofferenze direttamente dalla loro voce. Sì, un genitore assente, un insegnante che non ama la sua professione (e oggi non è difficile che accada), uno sportivo che vince grazie al doping, certi programmi televisivi, possono fare loro del male».

Le comunità sono riuscite nel loro intento di sensibilizzare in funzione preventiva o si limitano al “recupero”?

«Le comunità e i centri nati attorno al concetto di comunità hanno sempre lavorato anche per il reinserimento sociale, per la prevenzione primaria e secondaria, per fare degli ospiti, delle loro famiglie, dei loro amici, cellule vive nella società per prevenire il disagio e la devianza. Ed è quello che noi continuiamo a fare, anche con la nostra rivista ‘Il delfino’, con i nostri incontri, ed anche con questo mio appello, mi pare. Direi anzi che proprio il mondo del ‘recupero’, di cui le comunità rappresentano solo una piccola parte, hanno fatto più sensibilizzazione degli altri. Ma non è una grande consolazione».

Tra i dati del rapporto del governo sulla droga, lei sottolinea in particolare l’aumento delle donne tra i consumatori; perché ritiene necessari strumenti specifici e a livello culturale e pedagogico per affrontare il problema al femminile?

«Ho visto e conosciuto situazioni di sofferenza grande in migliaia di giovani, ma in alcune donne questa sofferenza era davvero immensa. Situazioni di degrado legate alla prostituzione, agli aborti, alle violenze subìte a volte per anni. C’è nella donna un tipo di sensibilità particolarissima, che va rispettata ed anzi esaltata. Io ho espresso la preoccupazione, che mi viene da molti operatori, che alcuni servizi per le tossicodipendenze, avendo avuto a che fare quasi esclusivamente per i maschi, sono pensati al maschile, cominciando da alcune comunità terapeutiche».

È stato accolto il suo appello?

«Non lo so. è molto presto per dirlo. Poi vorrei che non fosse il ‘mio’ appello, ma quello di tutti coloro che lottano in prima linea contro le droghe e per la dignità della persona umana nella sua interezza, e di tutti coloro che soffrono a causa della droga. La mia paura, però, è che a ricominciare a parlarne siano soprattutto gli antiproibizionisti e i proibizionisti. Insomma, che si litighi, come da vent’anni a questa parte, di legalizzazione sì, legalizzazione no. Sarebbe il peggior modo di accogliere questo appello. Perché è proprio l’aver puntato l’attenzione sulle sostanze e sulle leggi, anziché sulle persone, ad averci portato a questa situazione. E a chi mi chiede da che parte sto, continuo a rispondere che io sono per il rispetto della dignità della persona nella sua interezza e per la massima attenzione ai bisogni di tutti, soprattutto dei più emarginati e sofferenti. In una società di uomini e donne veramente liberi, forse si potrebbero anche legalizzare tutte le droghe. Ma nella società odierna, continuo a pensare che i benefici provenienti da una legalizzazione sarebbero inferiore ai danni».