Lettere in redazione

Dare dignità alla fine della vita

Caro Direttore,intangibilità della vita, accanimento terapeutico, rispetto dell’individuo e della sua coscienza di decidere di vivere o di morire quando il supplizio dell’esistenza diventa umanamente impossibile, esperienza del dolore purché non senza speranza, sono delicatissimi argomenti affrontati e dibattuti, quasi quotidianamente, sulla stampa e negli organi d’informazione ma anche fra la gente comune.Illuminante, a mio parere, la lettera sulla «dignità della fine di vita» inviata dal presidente dell’«Associazione italiana per lo studio del dolore», Giustino Varassi, (sottoscritto da 22 mila medici di cui 1.500 italiani) a don Verzé, che ha dichiarato di aver aiutato, trent’anni fa, un amico medico, in fin di vita, a morire.

Nel documento – riportato di recente su alcuni giornali – si legge: «Con le attuali normative esaudire la richiesta di morte di un malato è più economico che curarlo. Con l’eutanasia la medicina si libera di un problema, rottamando una macchina guasta. Con il trattamento del dolore invece si fa carico della sofferenza del malato, dedicando tempo e presenza. La medicina del dolore è infatti anche l’esempio di un nuovo umanesimo biomedico».

Questa civilissima lettera ripropone sia lo sforzo e lo studio della scienza medica, sia il dovere e l’impegno sociale ad alleviare le sofferenze dell’uomo anche quando la malattia rende irreversibile il processo della vita che se ne va.

Quindi – a mio giudizio – siamo chiamati a far prevalere sull’accanimento terapeutico quella scienza che si fa «amore» e si prende «cura» delle sofferenze e delle condizioni della vita di un uomo – «di ciò che resta» – giunta ormai agli estremi.Arrigo CanzaniSesto Fiorentino (Fi) La lettera aperta al Presidente della Repubblica con la quale Piergiorgio Welby, copresidente dell’Associazione Luca Coscioni, ha lanciato il suo grido per ottenere, mediante l’eutanasia, una «morte opportuna», ha innescato come era prevedibile un vivace dibattito a cui abbiamo già dato spazio anche in questa pagina, sottolineando le necessarie distinzioni – per noi moralmente significative – tra «eutanasia diretta, che consiste nel mettere fine, con un atto o con l’omissione di un’azione dovuta, alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte» e «l’accanimento terapeutico, cioè l’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Catechismo Chiesa cattolica, n. 470-471).C’è però un tema, che nel dibattito sull’eutanasia resta, forse volutamente in ombra, mentre emerge subito quando si tratta di pena capitale e cioè se lo Stato, mediante le sue leggi, possa diventare padrone della vita e quindi dare la morte, quand’anche fosse richiesta.Certo le situazioni drammatiche che ci vengono presentate dai sostenitori della «dolce morte» vanno affrontate e trattate con quella delicatezza che sempre si impone di fronte al dolore vero che può rendere «umanamente impossibile il supplizio dell’esistenza». Questo dolore, però, non può essere neppure strumentalizzato, come avviene quando – e i Radicali in questo sono maestri – partendo da casi estremi e facendo leva sull’emotività, si porta avanti un disegno ideologico allo scopo di introdurre nella legislazione italiana l’eutanasia presentata come «progresso di civiltà». Può essere invece una via facile per non farsi carico di chi soffre e può perfino celare motivi economici. La lettera del presidente dell’Associazione italiana per lo studio del dolore che tu, caro Arrigo, ci segnali è, a questo fine, emblematica: «esaudire la richiesta di morte di un malato è per lo Stato più economico che curarlo». Mentre «col trattamento del dolore ci si fa carico della sofferenza del malato, dedicandogli tempo e presenza». È questa la strada da percorrere, una strada certo più difficile, ma che segna il volto di una società.

L’inganno della «dolce morte»