Lettere in redazione

Eutanasia e accanimento terapeutico

Un tempo, quando la tecnologia non si era ancora impossessata della nostra vita, dalla nascita alla morte, Piergiorgio Welby sarebbe già morto da molto tempo in modo naturale, senza bisogno di ricorrere all’eutanasia per porre fine a una vita che vita più non è. Questo per dire che è l’accanimento terapeutico che mette le persone in situazioni talmente insostenibili da chiedere di porre fine alla propria esistenza.

D’altra parte, per quanto riguarda i malati terminali, la scienza, la medicina in particolare, dovrebbe approfondire la ricerca su farmaci che leniscono il dolore per venire incontro alle tante, terribili sofferenze di questi malati. Tanti anni fa la morte era vissuta in altro modo: si accompagnava il morente verso la fine nel proprio ambiente, con l’affetto dei parenti intorno per aiutarlo in quell’incontro che è il più importante di tutta la vita. Tutto avveniva naturalmente e si lasciava che il malato morisse in pace quando era il suo momento.

Ora invece si riesce, con l’aiuto di meccanismi disumani, a mantenere in vita per anni malati che altrimenti avrebbero già raggiunto il loro incontro col destino. Ma a chi giova tutto questo? Non ai malati, tant’è che invocano sempre più spesso l’eutanasia. Che sorta di angoscia deve esserci in chi chiede alla società di sopprimerlo!?

E smettiamo di fare discorsi ideologici di fronte a un problema che ci coinvolge tutti quanti, dando colpa alla Chiesa se in Italia in questo campo non c’è «libertà di coscienza». Ma di quale libertà si va parlando? Sono arciconvinta che nessun malato chiederebbe di praticargli l’eutanasia se non fosse portato alla disperazione da quella stessa scienza che si accanisce nel tenerlo in vita in condizioni che di umano non hanno più niente.Daniela NucciFirenze Quando la tecnologia non si era ancora impossessata della nostra vita» la mortalità infantile in Italia era compresa tra il 20 e il 30%. Non credo che si debbano rimpiangere quei tempi! Poi certo, ci sono anche gli abusi della pratica medica e l’illusione di una scienza capace di sconfiggere per sempre la morte. Ma andiamoci piano a definire «accanimento terapeutico» il tenere in vita una persona. C’è «accanimento» o «ostinazione terapeutica» solo quando si praticano al malato delle cure «che si sono dimostrate inutili o sproporzionatamente gravose», «per cui ci si accanisce a prolungare una vita, destinata a concludersi in breve tempo, a prezzo di gravi sofferenze imposte al malato, che dovrebbe invece essere lasciato morire naturalmente in pace» («La Civiltà Cattolica», n. 3646 maggio 2002). Non mi sembra che sia questo il caso di Welby, per la cui sofferenza – sia chiaro – dobbiamo avere il massimo rispetto.Claudio Turrini

L’inganno della «dolce morte»