Lettere in redazione

Il ’68 è ancora una questione aperta

Caro Direttore, ho visto pubblicato sul numero 19 di Toscanaoggi la lettera di Giovanni Pallanti (Florit, La Pira e il caso «Isolotto»), riguardo a quello che fu l’allora «caso Isolotto» a Firenze. Tutti ne soffrimmo, almeno quelli che come me, intenti al soffio dello Spirito del momento (pensi al Concilio Vaticano II), vivevamo le angosce della comunità cristiana colpita dall’eresia sessantottina. Tutto bene, quello che ha scritto Pallanti, ed ottima la sua risposta. Ma è imperdonabile l’aver oscurato la figura dell’allora Vicario Generale Mons. Giovanni Bianchi prima con il Card. Dalla Costa e poi con il Card. Florit di cui era anche Vescovo ausiliare.

Dovete sapere che mons. Bianchi, e questo era doveroso dirlo da parte vostra, fu l’unica vittima sacrifica in questa dolorosa circostanza e lo fu dalla ragion di stato di S.M.C.

Poi venne a Pescia, si dice per sua libera volontà.

Ma non finì qui: cominciò uno dei suoi periodi migliori in mezzo ad un popolo che lo amava, lo stimava e lo ascoltava. E noi ci sentiamo orgogliosi di averlo avuto «Padre e Pastore» per ben 17 anni. Perché di lui nemmeno una parola?

don Franco Biagini Montecatini Terme (PT) Caro Direttore, mentre leggevo la lettera dell’amico Pallanti (Florit, La Pira e il caso «Isolotto»), con le sue precisazioni anche di carattere personale sulla vicenda dell’Isolotto, mi immaginavo che tipo di reazione essa avrebbe potuto provocare nei lettori. Effettivamente il ’68, come rilevato recentemente da queste pagine, è un fenomeno che presenta ancora oggi qualche nervo scoperto, soprattutto in ambito ecclesiale, perché, secondo me, pone la questione centrale del dialogo nella Chiesa e della reale compartecipazione dei laici e del clero nelle motivazioni delle scelte prioritarie per l’evangelizzazione. Lo aveva ben capito qualche anno prima don Lorenzo Milani ma dobbiamo ammettere che la sua scuola di pensiero ha attraversato tutto il ’68 e con le istanze del Concilio Vaticano II è arrivata fino a noi. Qui sorge una domanda fondamentale: come fare un sereno e comunitario discernimento del nostro ricco passato? Come fare insieme «memoria» autentica cioè evangelica che non cada nelle sterili celebrazioni o peggio nelle contrapposizioni ideologiche che non fanno che aumentare il desiderio e la nostalgia della profezia per il nostro tempo e per la nostra Chiesa?

Forse abbiamo bisogno di una riflessione comunitaria dove mettere insieme forze culturali pluralistiche e sensibilità concrete per cogliere in quale maniera la missione può lavorare al servizio dello Spirito di Dio che opera nell’oggi per incarnare la potenza della Resurrezione.

Il passato continua ad interpellarci e ad invitarci a risposte coraggiose e nuove, riflesso di comunità vive che invertano «il processo di liofilizzazione della fede, per il quale la sostanza teologica del dire e dell’essere , portato a un grado basso di temperatura, diventa polvere stabilizzata ed incorruttibile. Ma una tonnellata di albicocche liofilizzate, incorruttibili, non possiede quello che ha una sola povera albicocca marcia: il seme germinatore di vita. Se tenessimo conto di questa fase si capirebbe una delle origini dalla quale viene la sterilità della nostra Chiesa attuale». Così ha scritto con acutezza qualche tempo fa don Paolo Giannoni in un suo piccolo saggio in replica a Sandro Magister proprio sugli argomenti sopra citati.

Don Giancarlo Lanforti Firenze

Queste lettere, che si aggiungono a quelle pubblicate sul n. 19 (Florit, La Pira e il caso «Isolotto»), sono segno dell’interesse suscitato dai nostri servizi (n. 17) su «Il ’68 dei cattolici», che prendevano le mosse da un recente libro di Roberto Beretta e che si soffermavano in modo particolare sul «caso Isolotto» che ebbe risonanza nazionale. Ora questi ulteriori interventi consentono di continuare e arricchire una riflessione sulla vicenda in sé e sulle persone che la vissero in posizioni di responsabilità.

È vero, caro mons. Biagini, non abbiamo ricordato il Vescovo Giovanni Bianchi, che all’epoca era ausiliare e vicario generale di Firenze. E me ne scuso. L’ho conosciuto bene e ho collaborato per lunghi anni con lui. Di quei fatti fu indubbiamente un protagonista e ne soffrì molto. So che tenne un diario sui contatti tra Isolotto e Curia fiorentina con annotazioni che sarebbe opportuno conoscere.

E la nostra collaborazione continuò anche quando fu nominato Vescovo di Pescia, perché Pescia fu tra le prime Diocesi che aderirono al progetto di Toscanaoggi.

Non fu però né si considerò «vittima delle ragioni di stato di Santa Madre Chiesa». Anzi desiderò lasciare Firenze perché capiva bene che il nuovo Arcivescovo, il card. Benelli, proprio per segnare una discontinuità, voleva collaboratori nuovi. Inoltre la Diocesi di Pescia per le sue stesse dimensioni gli consenitiva con preti e laici quel rapporto diretto in cui eccelleva.

Il ’68 è, comunque, ancora dopo quarant’anni un nervo scoperto in ambito ecclesiale, non tanto per quei fatti, ormai necessariamente consegnati al passato, ma perché, come lei ben dice, caro don Lanforti, «pone a tutt’oggi una questione centrale e cioè il dialogo nella Chiesa e la reale partecipazione dei laici e del clero nelle scelte prioritarie per l’evangelizzazione». È questa, a mio parere, una questione aperta, che esige una riflessione comunitaria che coinvolge «forze culturali pluralistiche e sensibilità concreta». E va affrontata – sotto la guida del Vescovo – senza schemi ideologici-politici, alla luce del Vangelo del Concilio e del successivo Magistero. E in quest’ottica sarebbe utile anche ripensare e vivificare i vari organismi diocesani di partecipazione che sono – o dovrebbero essere – luoghi privilegiati per il dialogo e il confronto intraecclesiale.