Lettere in redazione

Imu, una sentenza contro il terzo settore

Vi chiedo di rendere note queste mie osservazioni sulla estensione dell’imposta Imu (imposte municipali unificate, ma non è affatto così) anche agli enti detti «no profit», brutto americanismo che si comprende meglio nella nostra bella lingua: associazioni o cooperative o comunità parrocchiali, assistenziali, confessionali ma anche laiche.

Per primo: l’Imu vorrebbe colpire il capitale ma lo Stato stesso o meglio il cosiddetto «Catasto» non conservano e non forniscono il valore del capitale di un immobile ma il suo reddito, vero o presumibile e presunto. Questo perché per la Costituzione le tasse devono colpire più il reddito (vero o presunto) che  il capitale. Alla stanza dove si riunisce un circolo puoi portare via gli incassi ma non certo una parte della stanza. I soci che fanno se non hanno soldi per pagare, vendono una finestra?Ma il punto fondamentale è che le associazioni senza profitto sono fatte da cittadini che in definitiva hanno già pagato abbondantemente le loro tasse. Perché punirli se si mettono a lavorare per il prossimo anziché starsene sotto una pergola a giocare a carte oppure andare a fare belle passeggiate? Ma allora chi provvederebbe a tutto il lavoro delle Misericordie, della associazioni laiche di volontariato? Alla cura degli anziani, alle attività culturali, al teatro amatoriale, ai cineforum, alla protezione civile? Tutto è deferito allo Stato? Ai Comuni, alle Regioni, alle province, ai consorzi territoriali? Ma con le direttive europee tutti questi enti non hanno le braccia operative, i dipendenti con attrezzi e mezzi per intervenire davvero sul terreno.Chiudo con un paradosso economico: il paradosso della tesa dei panni. In Italia abbiamo la fortuna di poter stendere i panni ad asciugare stendendoli a un filo ed esponendoli al sole (il sole è il volontariato e i panni sono le tante necessità quotidiane nostre e del prossimo).

Se non ci fosse la stesa dei panni dovremmo tutti e sempre usare fuoco e macchine asciugatrici. Morale? Non tagliamo il filo alla tesa dei panni.

N. L.Firenze

Nel dibattito senza fine sul pagamento dell’Imu degli enti non profit si inserisce ora il Consiglio di Stato che con una interpretazione discutibile del concetto di libero mercato metterebbe in grave e forse letale difficoltà l’intero «Terzo settore». Lo afferma Francesco Belletti presidente del forum delle associazioni familiari.

Siamo coscienti delle potenziali sanzioni da parte della Commissione europea, ma l’Europa siamo anche noi. A Bruxelles si tratta, ma soprattutto si può e si deve spiegare che cosa sia il Terzo settore per l’Italia, per la sua economia, per il suo welfare, per la convivenza civile. Favorirlo non è un privilegio ma significa restituire, in piccola parte, ciò che 250 mila organizzazioni,750 mila lavoratori e circa 5 milioni di persone coinvolti come volontari fanno risparmiare allo Stato.

Jacopo Cabildoindirizzo email

I due lettori hanno perfettamente ragione: il parere del Consiglio di Stato sulla bozza di regolamento Imu per gli enti non profit, al di là di alcuni rilievi tecnici che possono essere anche condivisibili, è davvero inquietante. Nel testo si afferma che per essere esenti dall’Imu agli enti non profit non basta svolgere le attività «senza fine di lucro» o erogare servizi sanitari e assistenziali gratuiti o dietro versamento di quote simboliche. Non devono proprio esercitare alcun tipo di attività economica «come definita dal diritto dell’Unione Europea». In pratica, una mensa della Caritas che distribuisse pasti al prezzo simbolico di un euro, per il Consiglio di Stato svolgerebbe «attività commerciale». Stesso discorso per una casa famiglia che accoglie disabili e percepisce un piccolo contributo dal Comune. Eppure, se ci liberiamo dal paraocchi ideologico di chi, pur di colpire la Chiesa e quello che le è connesso, sarebbe disposto a tutto, dobbiamo riconoscere che il «terzo settore» contribuisce in maniera significativa al benessere della società e pertanto va difeso e sostenuto, non perseguitato o osteggiato. Secondo una recente ricerca di Unicredit Fondation, in Italia l’intero settore (cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, ong, onlus, associazioni di volontariato…) conta oltre 235 mila organizzazioni, coinvolge 488 mila lavoratori e 4 milioni di volontari. Sul piano economico, movimenta ben 67 miliardi di euro pari al 4,3% del Pil. E in un anno sono 50 milioni (praticamente tutti!) gli italiani che fruiscono dei suoi servizi.

«Il non profit – come ha osservato Francesco Belletti – rappresenta una specificità italiana e un segno di speranza per il futuro dell’intera società. Non è ammissibile che l’Europa frustri un capitale sociale di questa entità». Tra l’altro non è neanche vero che l’Unione europea non lo tenga in considerazione. Anzi, il termine stesso è stato introdotto negli anni ’70 proprio dall’Ue, definendolo come «Terzo» rispetto ai due settori tradizionali, dello Stato e del Mercato. Gravare di maggiori tasse questo settore sarebbe una scelta suicida oltre che miope. Né è pensabile che – là dove ha dei dipendenti o stipula delle convenzioni con gli enti locali – l’ente non profit svolga la sua attività in modo completamente gratuito.

Claudio Turrini