Lettere in redazione

Perché spendere miliardi per i cacciabombardieri?

In un momento di così gravi difficoltà per il bilancio dello Stato trovo assurdo che si spendano cifre ingenti per acquistare i nuovi caccia F-35. E non capisco perché il presidente Napolitano, che presiede quel Consiglio superiore di Difesa, che ha rivendicato all’esecutivo, invece che al Parlamento, le scelte sui programmi di ammodernamento delle forze armate, si presti a queste cose.

Lettera firmata

Trovo la polemica esplosa in questi giorni a proposito dell’acquisto degli F-35 tipicamente italiana. Si discute e ci si divide senza rendersi conto della reale portata del problema e della sua genesi, facendo come al solito anche un po’ di demagogia. È meglio spendere un miliardo di euro per comprare 7 cacciabombardiere F-35 (al costo di 155,5 milioni di euro l’uno) oppure destinare quelle risorse alla scuola, all’assistenza, alle famiglie in difficoltà? Posta così la domanda, chiunque sia sano di mente non può che rispondere «fermiamo l’acquisto degli aerei».

Ma le cose sono più complesse. Non è che il governo Letta (o il precedente governo Monti) è improvvisamente impazzito e mentre cerca disperatamente di tagliare la spesa e di trovare fondi per cancellare Imu sulla prima casa e aumento di un punto dell’Iva, si fa ingolosire da 7 aerei da guerra nuovi fiammanti.

La vicenda viene da lontano. Inizia addirittura nel 1993, quando il presidente americano Bill Clinton pensò di riammodernare la flotta aerea militare con tre veicoli diversi (uno per l’aeronautica convenzionale, uno da imbarcare sulle navi della Marina e uno ad atterraggio corto e decollo verticale per i Marines), ma studiati e prodotti insieme, per permettere una forte riduzione di costi. Nel 1996 per questo progetto di «Joint Strike Fighter», che prevedeva una forte partnership da parte dei Paesi occidentali, furono coinvolti i maggiori costruttori mondiali.

Si arrivò a selezionare due prototipi, uno della Boing (chiamato x-32) e uno della Lockheed (x-35). Dopo quattro anni, nel 2000, furono effettuati test di volo e venne scelto il modello della Lockheed. Gli Stati Uniti previdero vari livelli di partnership sia per la fase 1 (quella della progettazione) che per la fase 2 (produzione). Partner di livello 1 è soltanto l’Inghilterra, con 2,5 miliardi di dollari: il 10% della spesa prevista per lo sviluppo del progetto stimata inizialmente in 20 miliardi di $ e poi lievitata nel tempo. Partners di livello 2 sono Italia, con un impegno di 1 miliardo di dollari, e l’Olanda con 800 milioni di $. Partners di livello 3, con un impegno economico dell’1% sulla Fase 1 e con un modesto peso nelle varie scelte, sono Canada (440 milioni di $), Turchia (175 milioni di $), Australia (144 milioni di $), Norvegia (122 milioni di $) e Danimarca (110 milioni di $). Poi c’è un quarto livello, al quale hanno aderito Israele e Singapore che prevede l’acquisizione di informazioni tecnologiche in cambio di qualche decina di milioni di $.

L’Italia è dunque il secondo finanziatore in assoluto del progetto e vi ha aderito nel 1996, sotto il primo governo Prodi, quando ministro della difesa era l’economista Beniamino Andreatta. L’impegno è stato poi confermato dal governo D’Alema, nel 1998, dal governo Berlusconi nel 2002 e poi, definitivamente, dal secondo governo Prodi nel 2007, quando fu firmato l’accordo per la partecipazione alla costruzione dell’aereo, che avrebbe impegnato l’Italia fino al 2046. Nel 2002 l’Italia aveva ottenuto che una linea di assemblaggio, l’unica fuori degli Usa, venisse impiantata in Italia (nell’ex aeroporto di Cameri, vicino a Novara).

Intendiamoci. Intraprendere questa strada nel lontano 1996 non era una scelta obbligata. Ammesso che fosse indispensabile davvero ammodernare la nostra flotta, c’era già ad esempio, anche l’«Eurofighter Typhoon», prodotto da un consorzio di cui la nostra Alenia Aermacchi deteniene il 20%, e per il quale ci siamo impegnati ad acquistare 96 esemplari. Nel 2007, l’allora ministro della difesa Forcieri spiegò davanti alla Commissione difesa della Camera che i due progetti erano complementari e così siamo andati avanti con entrambi. Credo sia ragionevole ridurre il numero di F-35 che vogliamo acquistare nei prossimi anni (e si è già passati da 135 a 90). E anche discutere sulla lievitazione dei costi. Ma uscire oggi da questo progetto è molto difficile. Anche perché nella progettazione e costruzione sono coinvolte diverse aziende italiane e le ricadute tecnologiche in campo civile sono innegabili. Piuttosto andrebbe rivista l’intera spesa per la difesa (secondo il Sipri nel 2012 è stata di 26,4 miliardi di euro pari all’1,75% del Pil).

È in questo budget, che si è un po’ ridotto nel tempo (in 10 anni -19%) e che al 75% è assorbito dagli stipendi del personale, che figurano gli investimenti per gli F-35 (e per l’Eurofighter). Per far questo bisogna anche esser chiari su che modello di Difesa deve avere il nostro Paese. Facciamo parte dell’Unione Europea e già questo comporta degli obblighi. Poi ci sono le missioni internazionali. Su alcune, ancorché autorizzate dall’Onu, è lecito avere molti dubbi. Su altre, penso ad esempio alla missione di interposizione in Libano, molti meno.

Detto questo (e mi scuso per la lunghezza), mi lascia molto perplesso il pronunciamento del Consiglio superiore della Difesa. In queste scelte il Parlamento è sovrano. Gli unici limiti sono dati dalla Costituzione e dai trattati internazionali.