Lettere in redazione

Referendum, il voto non è responsabilit

Nessuno dica, per favore, che gli italiani hanno mostrato grande senso di responsabilità perché sono andati a votare i referendum. Nel 2005 in occasione di quello sulla Legge 40 (procreazione assistita), noi cattolici abbiamo detto che gli italiani hanno mostrato maturità non andando a votare. Non possiamo girare la frittata a seconda delle convenienze. Sta il fatto che in un referendum l’astensione è essa stessa un’espressione di voto. È quindi responsabilità anche non votare. E anche sulla vittoria dei «sì» ci sarebbe molto da dire. Se teniamo conto delle astensioni come voto vero e proprio – perché l’opzione era legittima –, risulta che il 45,2% degli italiani si è astenuto, il 52,06% ha detto sì all’abrogazione e il 2,74% ha detto no. Se sommiamo gli astenuti a chi ha detto «no», arriviamo al 47,94%. Questo il vero peso del risultato.G. Z.indirizzo email

Mi sembra che nella lettera ci sia un equivoco di fondo. I referendum abrogativi, previsti dalla Costituzione e rimasti «congelati» fino agli inizi degli anni ’70, sono uno strumento di democrazia concepito come «un baluardo contro un’eventuale “dittatura della maggioranza”», come ha scritto Edoardo Patriarca in un nostro editoriale (Di nuovo alle urne tra polemiche e silenzi. Ma vale la pena). I cattolici ci sono ricorsi sostanzialmente contro due leggi, quella del divorzio, nel 1974, e quella dell’aborto, nel 1981. In entrambi i casi hanno perso e le due leggi sono rimaste. Nel 2005 le firme contro la legge 40, quella sulla fecondazione medicalmente assistita, le raccolsero i radicali. Si tratta di una legge – è bene ricordarlo – che non ha proprio niente di «cattolico», perché regolamenta una metodica procreativa alla quale i cattolici, se ligi alle indicazioni del magistero della Chiesa, non dovrebbero accedere. Anche se sappiamo bene che poi non è così.

Perché allora il mondo cattolico in larga parte si mobilitò per l’astensione? Saremmo degli ipocriti se non riconoscessimo che era più facile far prevalere l’astensione che il «no». Ma il ragionamento aveva anche una sua «dignità»: votare «sì» avrebbe significato il ritorno ad una completa deregulation, dove tutto era permesso; votare «no» al contrario avrebbe avuto il senso di difendere una legge che si accettava solo come «male minore». Da qui l’idea dell’astensione, che è del tutto legittima nel caso dei referendum, visto che il legislatore ha previsto un «quorum» perché la consultazione sia valida e che non è corretto considerare uguale al «no». Aver invitato all’astensione nel 2005, inoltre, non vuol dire doverlo fare sempre.

Pur con i rilievi che faceva Patriarca nel citato editoriale (lo strumento è stato abusato e avrebbe bisogno di riforme), queste consultazioni sono importanti per una democrazia. È «senso di responsabilità» per un cittadino informarsi e cercare di farsene un’opinione motivata. Il che può essere anche difficile per la materia trattata (norme da abrogare troppo complesse, conseguenze non facilmente calcolabili…) e in quel caso il cittadino fa bene anche ad astenersi. Quello che non è mai da lodare è il disinteresse per la cosa pubblica. Ed è molto grave se da parte della maggioranza di governo si cerca di sabotare la consultazione, con un’informazione insufficiente o approvando a ridosso del voto norme pasticciate, come quella sullo «stop» al nucleare. Il Parlamento aveva tutto il tempo per modificare le leggi in discussione. Farlo dieci giorni prima del voto è una forzatura, ancorché la legge – purtroppo – lo permetta.

Claudio Turrini