Lettere in redazione

Sulla morte del giovane alpino in missione in Afghanistan

Caro direttore, come non commuoversi alla lettura di quanto aveva scritto il 4 novembre scorso, al sindaco di Thiene, il giovane Matteo, alpino caduto in Afghanistan? Particolarmente per la sensibilità e l’attenzione dimostrate verso il popolo afghano. Diceva: «l’essenza del popolo afghano è viva (…) gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre». Ma anche per il pensiero che rivolgeva ai bambini che «si portano una mano alla bocca, ormai sappiamo cosa vogliono, hanno fame». Aveva aggiunto al riguardo: «Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo, con acqua e viveri: non serviranno certo a noi…». Era anche consapevole che «ogni metro potrebbe essere l’ultimo».

Il vescovo castrense mons. Pelvi, nell’omelia durante la celebrazione delle esequie, ha ricordato «l’amore (di Matteo) per coloro che avvicinava» e ha concluso: «Ti diciamo grazie, angelo del dolore innocente, per averci resi tutti capaci di bontà, di amore e di speranza e per aver reso più civile, più cristiana e più umana la nostra convivenza». Sono state parole di conforto per i familiari, ma anche per tutti quelli che hanno un figlio militare in missione. Che amarezza qualche giorno dopo, durante un’omelia nella celebrazione festiva in una chiesa della mia diocesi, aver sentito gettare il discredito sul povero giovane e deplorare senza mezzi termini quanto il vescovo militare aveva sostenuto.

Parole che mi hanno fatto tanto male e, sul momento, mi hanno lasciato ammutolito. Finché ho preso il coraggio e mi sono deciso a scrivere. È una questione di giustizia: ho sentito il dovere di ripristinare almeno la dignità ferita, non potevo far finta di niente. Non sono stati evocati, come di consueto, «i nostri governanti corrotti», ma è stato disprezzato un giovane la cui vita è ormai troncata. Aveva solo ventiquattro anni e stava adempiendo al proprio dovere. Mio figlio è militare, anch’egli inviato in missione in quello sfortunato paese e, con lo stesso senso di responsabilità di Matteo, sta adempiendo ai delicati compiti assegnatigli.L’omelia dell’ordinario militare l’ho sentita pacificatrice e unitiva, oltre che rispettosa del grande dolore che ha colpito la famiglia di Matteo. Le amorevoli parole del vescovo si possono non condividere. Ma, non pensa che, in tal caso, sarebbe meglio esercitarsi nella carità di tacere? Almeno in chiesa. Lettera firmata

Per una famiglia la perdita di un figlio, un fidanzato, un parente dell’età di Matteo (e purtroppo non è stato nemmeno l’ultimo) provoca un dolore tale che solo la fede, se robusta, può alleviare. Per cui capisco il nostro lettore che si è commosso, come tanti altri, agli scritti del giovane alpino e alle parole del vescovo Pelvi. Non capirei, ovviamente, un sacerdote che disprezza un ragazzo «la cui vita è ormai troncata». Non lo capirei in ogni caso, a prescindere se faccia riferimento a un militare o meno. Voglio pertanto sperare che il sacerdote in questione non si riferisse alla persona, ma al tipo di missione che quella persona era chiamata a svolgere. In questo senso, l’obiezione alla scelta militare è legittima, purché nel rispetto della scelta contraria e soprattutto nel rispetto del valore incommensurabile della vita umana.

Andrea Fagioli