Lettere in redazione
Welby e il funerale negato
Anche se non voglio cedere e rinunciare alle mie abitudini «religiose», la fede vacilla in continuazione, le certezze che avevo incombono su di me come macigni minacciosi che da un momento all’altro possono schiacciarmi inesorabilmente, non riesco più a sentirmi nella casa sicura di un tempo.
Perché? Perché di fronte ai drammi, oppure chiamiamoli problemi, che in questi ultimi tempi vengono alla ribalta nella nostra società, problemi di vita, di morte, di giustizia, di accoglienza, di fronte a tutto questo ed altro io mi sento rabbrividire quando ascolto o leggo coloro da cui mi sono per tanti anni sentita rappresentata e che fanno parte della mia vita e che amo come i miei familiari più cari, quando li sento dire: le persone dello stesso sesso che vogliono vivere insieme non meritano rispetto e tutela civile, coloro che non resistono più al dolore ed alla devastazione fisica e che non hanno più nessuna speranza di recupero devono accettare il loro strazio e il loro disfacimento, non devono desiderare la fine della loro sofferenza, devono prolungarla ed accettarla senza discutere.
E chi muore chiedendo ad altri l’aiuto per morire non ha diritto di entrare in chiesa. No, perché in chiesa hanno diritto di entrare i cadaveri di uomini come Pinochet ma non i cadaveri di chi è stato per decine di anni inchiodato ad un letto con un respiratore artificiale.
Ma Cristo da che parte sta? Dov’è andato a finire il Suo Amore infinito? Forse non riesco a capire, ma chi dà diritto ad un cristiano di dire a suo fratello (o sorella): la tua diversità dalla maggioranza è un male da nascondere, tu non hai diritto di vivere in questa società alla pari degli altri?
Tenterò di farlo, senza alcuna presunzione di dire una parola definitiva e credo che possa aiutarci una lettura serena di tutta la vicenda, anche per rispondere alla tua lettera-riflessione, cara Elisabetta, che ha il timbro doloroso e sincero di chi non comprende più una Chiesa che è pur sempre sono parole tue «la famiglia di cui mi sento parte e che sempre amerò e che non abbandonerò mai».
C’è, prima di tutto, un dramma personale, che merita rispetto, quello di Piergiorgio Welby. Sofferente da lunghi anni e senza alcuna possibilità di guarigione chiede «con piena avvertenza e deliberata volontà» che sia staccata la spina che lo tiene in vita, ma vuole che ciò avvenga in virtù di una legge che in Italia non c’è e che lui sollecita: l’eutanasia, alla quale la Chiesa da sempre si oppone distinguendo ovviamente tra eutanasia e accanimento terapeutico in nome di una verità che non le appartiene e di cui è solo custode: la vita umana, ogni vita, «dal concepimento alla morte naturale» è nelle mani di Dio e non può essere legata alla decisione né del singolo né dello Stato.
I Radicali di cui Welby è esponente , giocando sull’emotività che ogni caso doloroso suscita, si sono impadroniti con una buona dose di cinismo di questa vicenda, che richiedeva discrezione e delicatezza, e ne hanno fatto una bandiera e così Welby è diventato l’icona del diritto alla buona morte e del dovere dello Stato di renderla legale. Questa strumentalizzazione ha avuto il suo apice nella cerimonia funebre in piazza con i discorsi di Pannella, Bonino, Pecoraro Scanio e con la raccolta di firme per far pressione sul Parlamento.