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Nascere e vivere da profughi nel campo di Minawao

Il racconto di padre Byl Frans, direttore della Caritas della diocesi di Maroua-Mokolo Sono oltre 45mila i profughi nigeriani in fuga da Boko Haram ospitati nel campo allestito dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite nel distretto dell’Estremo nord. Tre su quattro sono giovani con meno di 17 anni. Altri 50mila rifugiati vivono nei villaggi di confine. Ad aiutarli la rete delle Caritas parrocchiali

Là dove c’era la savana ora sorge una città, con i suoi 45mila abitanti una delle più popolose di questa regione del Camerun. Ci troviamo nel distretto dell’Estremo nord, a mille chilometri dalla capitale Yaoundé, in una lingua di terra che si insinua verso il lago Ciad al confine con la Nigeria. La «città» in questione, anche se il termine non è dei più appropriati, è il campo profughi di Minawao aperto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati nel luglio 2013 per dare un riparo ai profughi nigeriani in fuga da Boko Haram. «Quando la pressione nei villaggi lungo il confine è diventata insostenibile, le Nazioni Unite hanno individuato questa porzione di territorio, a circa 70 chilometri dalla frontiera, e hanno iniziato a trasferirvi le persone», racconta padre Byl Frans, direttore della Caritas della diocesi di Maroua-Mokolo che settimanalmente visita la struttura.

Tre profughi su quattro hanno meno di 17 anni. Attualmente nel campo, che copre una superficie di 319 ettari, vivono 45.617 persone (dato aggiornato al 7 settembre), tre su quattro hanno meno di 17 anni, ma il numero è destinato a crescere. «Attorno al campo di Minawao, l’unico nella regione, – spiega il sacerdote – ruota il lavoro di oltre venti Ong che si occupano dell’assistenza. Il problema più grande resta quello dell’approvvigionamento idrico e dei servizi igienici; il rischio è, infatti, quello di assistere alla diffusione di epidemie. Con il tempo alcune delle famiglie ospitate si stanno organizzando per trasformare le tende in vere e proprie case. Sono state aperte 24 scuole primarie e sette secondarie, una maternità e una volta alla settimana, all’interno del campo, si tiene il mercato. Questo dimostra il bisogno delle persone di normalità».

Una casa per duemila bambini. A Minawao la Caritas cerca di portare soprattutto vicinanza umana. «La conferenza episcopale nigeriana – precisa padre Byl – ha inviato un sacerdote per occuparsi dell’assistenza spirituale delle persone presenti. Padre Salomon vive con noi a Maroua e visita il campo periodicamente. La domenica celebriamo la messa in una tenda posta all’esterno della struttura». Non tutti gli ospiti del campo sono fuggiti dalla Nigeria: sono oltre duemila, infatti, i bambini nati nel campo. «In questi due anni – spiega padre Byl – alcune persone hanno provato a tornare in Nigeria, ma hanno finito per attirare l’attenzione delle forze di sicurezza camerunensi che hanno pensato fossero miliziani di Boko Haram. Alcuni di loro non hanno fatto ritorno e questo ha finito per scoraggiare chi era rimasto dal tentare analoghe iniziative».

La guerra continua. Non bisogna dimenticare che il distretto dell’Estremo nord è una zona di guerra dove la pressione dell’esercito camerunense si è intensificata a seguito dei due attacchi kamikaze che hanno colpito nel mese di luglio il capoluogo. «L’esercito – continua il sacerdote – ha schierato circa tremila uomini e di questi, oltre la metà, fanno parte delle forze speciali. Il governatore ha imposto il coprifuoco serale e i luoghi sensibili, come l’episcopio, sono controllati dai militari. La gente ha paura perché si susseguono arrestati in Camerun, segno di come la setta si sia ormai estesa anche da questa parte del confine».

Il lavoro della Caritas. Guardando alla crisi umanitaria in corso non bisogna però pensare che tutto si risolva a Minawao o nella costruzione, più volte paventata, di un secondo campo profughi. La maggior parte dei rifugiati, si parla di altre 50mila persone nella sola diocesi di Maroua-Mokolo, è ospitata nei villaggi. «Bisogna ricordare – conclude il missionario – come da una parte e dall’altra del confine vivano gli stessi gruppi etnici ed è frequente che i profughi in arrivo vengano ospitati da parenti. Questo ha dato vita a belle forme di ospitalità, ma in una realtà di grande povertà non è facile far fronte ai nuovi arrivi. Per questo, attraverso le Caritas parrocchiali, stiamo cercando di assistere queste persone dando la precedenza a quelle zone dove le grandi organizzazioni non arrivano».