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Obama-Romney, una sfida tra crisi economica e temi etici

Il primo presidente nero della storia americana è in leggero vantaggio per un secondo mandato, ma pesano sul voto del prossimo 4 novembre alcune promesse non mantenute e il suo appoggio all’aborto e ai matrimoni gay. I cristiani possono votare democratico solo considerando marginali i cosiddetti «valori non negoziabili» rispetto al resto dell’azione sociale.

Negli ultimi undici presidenti americani ben sei sono stati rieletti dopo il loro primo mandato. C’è quindi nelle elezioni americane una tendenza a favorire il presidente in carica rispetto allo sfidante. Secondo questa logica Obama dovrebbe essere il favorito per le elezioni del prossimo 4 novembre. Ma in periodi di crisi economica c’è anche una regola generale opposta per cui chi è già in carica viene punito dagli elettori come hanno dimostrato anche le ultime elezioni in Spagna, in Grecia e in Francia. Preso fra queste due opposte fatalità il presidente Obama deve quindi difendere con i denti la sua rielezione e, anche se gli ultimi sondaggi lo danno di pochissimo favorito sul suo rivale Romney, fino all’ultimo non ci sarà nessuna certezza su chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti.

Obama poi si porta dietro un bilancio che non è negativo, ma nemmeno eccessivamente brillante. Molti progetti iniziali sono rimasti a mezza strada. Altre promesse sono state dimenticate. Altre ancora hanno dovuto essere annacquate in un compromesso con l’opposizione. Quattro anni fa Obama fu portato alla Casa Bianca non tanto dalla stanchezza degli americani per la guerra in Iraq, quanto dalla grave crisi economica che era scoppiata sotto il presidente Bush. Su questo piano si può dire che Obama ha arginato la crisi anche se non è riuscito a superarla. Gli ultimi dati ci dicono che i disoccupati americani sono scesi al 7,8% con la crescita di circa settecentomila posti di lavoro per lo più precari, ma dovuti ad una politica keynesiana di lavori pubblici e di impieghi nella amministrazione. Ma all’inizio del suo mandato gli esperti di Obama avevano promesso di ridurre la disoccupazione a poco più del 5%. Sul piano interno il maggiore successo Obama l’ha ottenuto nel riuscire a dare finalmente l’assistenza medica a 32 dei 50 milioni di americani che ancora ne erano privi pur venendo ad un compromesso con l’opposizione repubblicana su questo storico provvedimento.

In politica estera quelle che dovevano essere le due grandi svolte dell’età di Obama furono annunciate in due fondamentali discorsi del primo anno della sua presidenza: quello del 5 aprile a Praga e quello del 4 giugno al Cairo. Nel primo il neopresidente si proponeva l’abolizione delle armi nucleari seppure in un tempo lungo. Nel secondo offriva rispetto ed amicizia al mondo musulmano e chiedeva persino scusa di alcuni episodi della politica americana del passato nel Medio Oriente.

Il primo progetto ha avuto come risultato il trattato firmato due anni fa con il russo Medvedev a Praga, che ha ridotto le testate nucleari delle due superpotenze a 1.550 per parte. Questo accordo in fondo ha diminuito le armi atomiche solo del trenta per cento e sulla via del disarmo è stato meno importante della rinuncia di Obama a non costruire in Europa lo scudo antimissile per non irritare la Russia e dell’impegno a non utilizzare armi atomiche contro i paesi che abbiano aderito al trattato di non proliferazione nel tentativo di salvare un sistema di antiproliferazione atomica molto pericolante. A sua volta la svolta del Cairo si è tradotta nell’appoggio aperto di Obama alle «primavere arabe» con il risultato che oggi l’opposizione repubblicana getta sulle spalle dei presidente in carica tutti gli episodi di integralismo che appaiono nei paesi liberati dalle vecchie dittature. Tuttavia, nonostante la propaganda repubblicana, non è vero che l’Africa settentrionale sia diventata il regno di Al Qaeda. Più realisticamente anche qui Obama ha ottenuto una mezza vittoria. Come ha detto il neopresidente egiziano Morsi: «Noi non siamo né amici né nemici degli Stati Uniti». Ed ha ricordato che, per riconquistare il cuore degli arabi, non basta aver sostenuto le recenti rivolte in Africa Settentrionale, ma bisogna risolvere la questione palestinese. Ora è proprio su quest’ultimo punto che Obama si è mostrato più latitante. Dopo avere tentato inutilmente di fermare la colonizzazione israeliana nei territori occupati ha riposto di fatto in un cassetto il dossier del conflitto arabo-israeliano.

Per quanto riguarda il Medio Oriente il merito principale di Obama è semmai stato quello di aver respinto la richiesta del presidente israeliano Netanyahu che chiedeva l’invio di un ultimatum all’Iran come premessa di un attacco militare e Obama ha continuato ad insistere sulle sanzioni economiche come mezzo per dissuadere Teheran dai suoi piani nucleari.

Per il resto, per quanto riguarda il ritiro dall’Iraq o dall’Afganistan, il calendario di Obama non è stato in fondo diverso da quello che avrebbe seguito Bush. L’attuale inquilino della Casa Bianca cerca semmai di evitare le battaglie e si affida alle azioni di aerei senza pilota e a rapide azioni di commando come quella con cui è stato eliminato Ben Laden.

Lo sfidante Mitt Romney, che l’anno scorso ha denunciato un reddito di 13,7 milioni di dollari, per risolvere la crisi economica propone le ricette tipiche che ormai dal tempo di Reagan sono diventate il liberismo rivisitato del partito repubblicano: riduzione delle tasse anche a costo di abolirne la progressività e tornare ad aliquote proporzionali, meno tasse anche per vincere la concorrenza con la Cina e ridurre le delocalizzazione all’estero delle industrie, meno vincoli ambientali per potere sfruttare il petrolio dell’Alaska anziché puntare sulle energie rinnovabili, meno spese dello stato eccetto che per la Difesa. E per quanto riguarda la politica estera aumento delle spese militari di ogni paese della Nato fino al 2%, più missili piazzati contro la Russia, navi da guerra spedite verso le coste dell’Iran, sfiducia nella possibilità di creare oggi due stati in Israele, soppressione agli aiuti all’Egitto se non si schiera con Israele. In sostanza quasi un ritorno alla guerra fredda, anche quando i ghiacciai del pianeta si stanno sciogliendo.

In queste elezioni si scontrano politicamente questa volta come non mai anche razze e religioni molto diverse. Il presidente Obama, figlio di un musulmano diventato ateo, si è battezzato a venti anni nella Trinity United Church, una delle chiese cristiane afroamericane più secolarizzate e più dedicate al sociale. Mitt Romney è un mormone membro di quella chiesa dell’Utah che in un lontano passato era famosa per praticare anche la poligamia. Sia Paul Ryan, il candidato alla vicepresidenza repubblicano, che Joe Biden, il candidato alla presidenza democratico, sono invece cattolici. Come è noto, in America i cristiano evangelici, ma in buona parte anche i cattolici, sono piuttosto liberali in economia, mentre sono assai fedeli ai principi cristiani della bioetica, con la condanna dell’aborto e dei matrimoni fra omosessuali. Così buona parte di loro voterà repubblicano dove possono trovare, vuoi per convinzione o vuoi per opportunismo, più rappresentati questi valori. Al contrario Obama è favorevole non solo ai matrimoni gay, ma anche all’aborto e in passato ha dichiarato di volere lasciare libertà anche al cosiddetto «aborto parziale» che può essere praticato anche all’ottavo-nono mese. I cristiani possono quindi votare democratico solo considerando marginali i cosiddetti «valori non negoziabili» rispetto al resto dell’azione sociale.

La società americana è inoltre una società sempre più multirrazziale in cui la somma di latino-americani, asiatici, neri sta già superando i bianchi nelle nascite. In questa nuova maggioranza i latinoamericani sono la popolazione più portata a tenere conto della tradizione cattolica tradizionale. Secondo i sondaggi invece non più del due per cento dei neri voteranno al solito per il candidato repubblicano. Eppure nemmeno i neri, tradizionali elettori democratici, sono contenti al cento per cento del primo presidente nero della storia americana. In fondo, dopo quattro anni di presidenza Obama, la disoccupazione fra i neri è ancora al 14%, quasi il doppio della media. Steven Gray, un giornalista nero del «Time», dopo aver ricordato che «un quarto dei neri non possiedono nessun altra proprietà che la loro auto», ha accusato addirittura Obama di essersi dimenticato proprio della loro povertà aggiungendo una considerazione tagliente su un presidente che, a suo dire, avrebbe invece «energicamente assecondato gli omosessuali che sono in genere delle persone agiate e politicamente attive».