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Sentenza Cedu su unioni gay: Forum famiglie e Mpv, non strumentalizzarla

La Cedu ha stabilito oggi che l'Italia viola la Convenzione europea dei diritti umani, non tutelando i diritti delle coppie omosessuali. Ma non dice che si debbano riconoscere i matrimoni gay.

Secondo i giudici di Strasburgo l’Italia non rispetta l’articolo 8 della Convenzione, relativo al rispetto della vita privata e familiare, perché nel suo ordinamento non prevede alcun tipo di riconoscimento legale per le coppie gay. La Corte rileva che la legislazione italiana «non solo non soddisfa le necessità fondamentali di una coppia impegnata in un relazione stabile, ma non è neppure sufficientemente affidabile». Per la Corte dunque «un’unione civile o una partnership registrata sarebbe il modo più adeguato per riconoscere legalmente le coppie dello stesso sesso». Il giudizio nasce dal ricorso di tre coppie di omosessuali italiani che avevano tentato di chiedere il nulla osta per il matrimonio in Italia, ma se l’erano visto respingere. La Corte sottolinea che tra i Paesi membri del Consiglio d’Europa c’è la tendenza a riconoscere i matrimoni omosessuali, con 24 su 47 Stati ad aver già detto sì.

«La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul presunto deficit di tutela dei diritti di coppie di persone dello stesso sesso nell’ordinamento italiano conferma la ricorrente tendenza di certa giurisprudenza a farsi soggetto etico, nel tentativo di imporre a colpi di sentenze alcuni valori e scelte specifiche, non solo al posto della politica, ma volendo condizionare anche la testa delle persone», ha dichiarato in una nota il Forum delle associazioni familiari. «Sulla regolazione delle relazioni affettive tra persone dello stesso sesso è oggi in atto un grande dibattito culturale e sociale nel nostro Paese, e le opinioni presenti sono fortemente polarizzate». «L’identità stessa della famiglia è con chiarezza affidata, a livello europeo, all’autodeterminazione di ogni sistema nazionale. Quindi usare la sentenza Cedu come grimaldello per non affrontare questo dibattito, per rendere obbligata una scelta di regolazione, è una scorciatoia che toglie spazi di democrazia e di dibattito, ed espropria la libertà e l’autonomia di un popolo di poter decidere da sé». Il Forum aggiunge: «Affrontiamo con serietà il dibattito» su «famiglia, matrimonio e relazioni affettive, senza pregiudizi né fondamentalismi, dando voce e rispetto per tutte le posizioni presenti. E rispettiamo pure le sentenze dei Tribunali, anche europei, però con la libertà di poter esprimere dissenso, quando pretendono di costruire un pensiero unico».

«Sulle unioni civili si continua a rimestare nell’equivoco» e «qualcuno pensa, in questo modo, di riuscire a portare a casa i risultati cercati, ma così non si aiuta né la comprensione né la soluzione delle questioni aperte», così Gian Luigi Gigli, presidente del Movimento per la vita (Mpv), commenta la sentenza della Corte di Strasburgo. «Una cosa sono i diritti individuali e quelli per ogni forma di convivenza solidaristica, richiamati anche dalla Cedu nella sentenza», spiega Gigli. «Altra cosa è il riconoscimento nei fatti di un matrimonio sotto mentite spoglie». «Non ci arrenderemo mai a questa prospettiva che aprirebbe inevitabilmente la strada a una totale equiparazione al matrimonio per via giudiziaria, con tutto quello che ne deriverebbe in tema di adozione, fecondazione eterologa, acquisto di gameti e utero in affitto». Quindi conclude: «Invece di fantasticare di accelerazioni su questi temi, il governo si concentri piuttosto a contrastare l’inverno demografico sostenendo le famiglie e aiutando le gestanti in difficoltà ad evitare l’aborto».

«Questa sentenza non dice nulla di nuovo in realtà e tanto meno chiede all’Italia di equiparare le unioni fra persone dello stesso sesso al matrimonio, così come riconosciuto nel nostro ordinamento»: Alberto Gambino, docente di Diritto privato all’Università europea di Roma, puntualizza alcuni elementi attorno alla sentenza pronunciata oggi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sulle unioni gay. Il giurista spiega anzitutto che «le sentenze della Corte europea hanno valore vincolante per gli Stati che hanno sottoscritto la Convenzione» sui diritti dell’uomo. D’altro canto «non è prevista una sanzione» in caso di mancata applicazione della sentenza stessa, ma «è il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa», da cui dipende la Corte, «attraverso la sua moral suasion a vigilare» sulla recezione della sentenza negli ordinamenti nazionali. Resta poi di competenza dei Parlamenti, in questo caso del Parlamento italiano, stabilire come debba essere recepita tale sentenza e con quale tipo di normativa, «perché di certo la Corte di Strasburgo non può sostituirsi al nostro Parlamento». Gambino tiene anche a precisare che «la sentenza non obbliga affatto l’Italia ad equiparare le unioni tra persone dello stesso sesso all’istituto del matrimonio».

Infatti, aggiunge Gambino, gli «strumenti legislativi per l’attuazione della sentenza Cedu possono essere i più diversi e sta al singolo Stato decidere con quale forma intervenire per evitare differenti tutele dei diritti» tra le coppie etero e quelle omosessuali. La sentenza, di 205 paragrafi, chiama in particolar modo in causa l’articolo 8 della Convenzione europea, intitolata al «diritto alla vita privata e familiare». Inoltre occorre riaffermare, anche diversamente da quanto proposto da alcuni mass media, che la sentenza odierna «non indica affatto cosa sia la famiglia», perché tale competenza «è e rimane» degli Stati membri e dunque dei rispettivi organi legislativi. Del resto – specifica Gambino – l’Italia ha liberamente sottoscritto la Convenzione europea anche in ragione del fatto che essa rispetta la competenza nazionale in materia di diritto di famiglia e matrimonio. «Occorre non di meno riconoscere – aggiunge il docente – che la sentenza di Strasburgo fa riferimento a sentenze pronunciate dalla Cassazione italiana e dalla nostra Corte costituzionale che hanno invitato il legislatore a intervenire su questa materia», «senza peraltro indicare come essa debba essere regolata», trattandosi appunto di competenza del Parlamento.