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Turchia: la testimonianza di una coppia fiorentina sui profughi

Dalla Turchia, dove vivono ormai da anni, una famiglia fiorentina, quella di Roberto e Gabriella Ugolini, raccontano dei tanti profughi che sono nel Paese.

«Stiamo vivendo un periodo molto particolare. Le notizie di quello che sta accadendo in Europa, a proposito dell’apertura dei confini, sono state interpretate dai profughi, qui a Van, come un invito a partire. Difficile avere un’idea di quante famiglie l’abbiano già fatto o ne siano in procinto». È quanto scrivono Roberto e Gabriella Ugolini, originari di Firenze, da tanti anni in Turchia, in una lettera che periodicamente inviano ai loro amici. Sono, spiegano, «in maggioranza gli afghani, che ormai dal 2012 non hanno più alcuna possibilità di poter partire legalmente, che se ne vanno. Tutte queste partenze si spiegano anche col fatto che i confini ‘aperti’(?) permettono loro di andarsene da qui senza dover pagare tutto il viaggio fino in …Germania, Austria, Svezia, ai trafficanti di umanità. Mentre prima dovevano pagare tutto, oggi, solamente il passaggio del mare dalla costa turca a quella greca, poi diventano clandestini ‘fai da te’». Da alcune settimane, rivelano i coniugi, «non facciamo altro che vivere momenti emotivamente forti. Dopo anni e anni di condivisione, oggi li vediamo preparare uno zaino per andarsene. Inutile cercare di dissuaderli. Abbiamo tentato tante volte, in tanti modi, di spiegare loro i pericoli cui vanno incontro», ma «niente da fare». Perciò, «abbiamo tanti timori sull’esito della loro scelta, possiamo però capirla bene!».

I coniugi Ugolini definiscono questo il «‘bello’ spreco!»: «Quanti abbracci, quante lacrime. Quando si vuole bene è difficilissimo separarsi. Sono loro che in tutti questi anni ci hanno introdotto in percorsi di vita altrimenti non immaginabili per Gabri e per me. Sono loro che ci hanno mostrato quel Vangelo che non conoscono, sono loro che ci hanno fatto capire che senso ha tutto quello che la vita ci ha dato sotto tante forme. Non chiediamoci più, perché a noi, perché noi… perché noi non siamo nostri, così come non lo sono le ‘cose’ che abbiamo. Abbiamo senso se sappiamo condividere». «Hanno dato alla parola ‘spreco’ un significato positivo – proseguono -: spreco come sovra-abbondanza di bene, lacrime, sentimenti profondi, amicizia, attese di notizie dal loro viaggio, abbracci. Sono abbracci avvolgenti, forti, che emanano affetto, bisogno di ‘passarsi’ attraverso quel contatto tutto quello che le parole non arrivano ad esprimere».

Tramite Skype o Viber i coniugi continueranno a seguirli: «Mentre vi scriviamo alcuni sono in Macedonia, altri in Austria, altri in Germania, altri ancora in Grecia. Ci siamo raccomandati con tutti di tenerci informati. Uno squillo dal loro telefono e li avremmo richiamati. Qualcuno ci ha già telefonato per dirci che il mare l’avevano passato. Non hanno voluto che fossimo noi a richiamare, anche questa è delicatezza! Grazie a voi, pellegrini, per questo spreco che buca l’anima».