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8 marzo, Lettera alla mimosa

di Elena GiannarelliCara mimosa dai rami ridenti di giallo, primo avviso della futura primavera, costretta da un tempo pazzo a fiorire a fine gennaio, salvo poi vederti piovere addosso la grandine o fioccare la neve, ti scrivo perché sta per cominciare la tua annuale kermesse. Il giorno 8 marzo e dintorni, cara mimosa, sarai cara davvero: i fiorai ti faranno pagare profumatamente, è il caso di dirlo.

Certo, ti vestirai di cellophane, avrai fiocchi e controfiocchi, sarai accompagnata da altri fiori e diventerai il simbolo della festa della donna. Sarai presente sui tavoli dei ristoranti la sera fatidica, per cene romantiche al lume di candela, che magari finiranno in litigio, o per allegre riunioni di fanciulle, pronte ad accettare senza porsi troppi perché una tradizione che regala loro un’occasione di bisboccia. Gli uomini ti doneranno alle loro mogli, madri, sorelle, amiche.

Tu sei equiparata ai Baci Perugina per San Valentino, alle frittelle di riso per San Giuseppe, alle rose della «Festa della mamma». Dispiace dirlo, ma i cenci di Carnevale ed i rari «Quaresimali», vecchi di secoli, hanno una dignità che a te è stata tolta. Già perché la festa, nata per riflettere sul ruolo e sull’ importanza della donna ha perso il suo significato. È stata ridotta, forse per esorcizzarla, ad appuntamento da fiorai e gioiellieri, desemantizzata fino a farne evento di consumo.

«Festa della donna»: etichetta strana, che fotografa la realtà di oggi. Chi frequenta più, se non gli addetti e le addette ai lavori, la storia delle donne, dalle antiche credenti che si vestivano da uomo per entrare in monastero, alle mondariso costrette ad un mestiere fra i più ingrati, alle sfruttate operaie ottocentesche delle fabbriche, fra cui quelle che appunto hanno fatto fissare all’otto marzo la ricorrenza? «Festa della donna», come «festa dei pompieri», «festa del volontariato»? Festa di un mestiere, di una professione, di una scelta? Essere donna non è niente di tutto questo. Oggi siamo pari, o meglio siamo alla pari nella diversità, o dovremmo esserlo. Esistono donne chirurgo e donne autiste dell’autobus, donne magistrato e donne guide alpine, ma occhio alle banalizzazioni: indipendentemente dal sesso c’è chi il suo lavoro lo sa fare e chi no. Spesso però per una signora emergere è molto più difficile che per un uomo: devi essere brava il doppio per arrivare alla pari.

Funziona così in vasti settori del mondo del lavoro e in certe aree addirittura sono ancora operanti penalizzazioni. Se l’importante è lottare per potersi esprimere senza compromessi, un altro interrogativo si fa strada: il modello maschile del potere ha forse costretto le donne a esercitarlo, quando lo abbiano, con le stesse modalità degli uomini? Perché il potere è potere: scompaiono davanti a lui le differenze e logora chi non lo ha ed anche chi ce l’ha.Oggi le appartenenti al gentil sesso sembrano diventate le peggiori nemiche di se stesse.

Le cosiddette «pari opportunità» vengono vanificate dall’acritica accettazione di un sistema perverso in cui si discutono leggi di vitale importanza per le donne non tenendo conto dei loro problemi e delle loro aspettative. Per contro nella nostra società, scelgo un esempio a caso, il femminile si lega soprattutto all’ immagine fisica, non importa quanto lesiva della dignità della persona. Basta aprire un televisore per vedere splendide ragazze spogliate interagire con uomini vestiti di tutto punto. Pare che non si possano leggere i risultati delle partite di calcio se non si mostra qualche attributo.

Al di là della questione del buono o cattivo gusto, nessuno ritiene tutto ciò mortificante per le fanciulle: nemmeno loro stesse, questo è il peggio. Ma c’è qualcosa di ancora più grave: l’abisso fra le quarantenni-cinquantenni di oggi e le giovanissime, che si misura in mancanza di curiosità, di voglia di sapere, nell’esprimersi usando una parolaccia su tre. Non tutte sono così, mimosa, ci sono le dovute e confortanti eccezioni, ma l’andazzo è questo. Certo, le donne che svolgono professioni pubbliche, lavorano nelle case, fanno girare i volani delle famiglie, soffrono il degrado delle scuole e degli ospedali, sono quelle che vorrebbero intervenire e intervengono, nei limiti del possibile, contro le tante ingiustizie che altre signore patiscono a ovest, est, nord e sud e nella casa accanto. Per loro, se pensato nei termini correnti, l’abito della festa non ha senso. È di queste ore la notizia di una suora seviziata e uccisa in Mozambico per aver denunciato i mercanti di organi. Sarebbe bello poter deporre su di lei un ramo simbolico che avesse valore.

Dal muro d’angolo di un giardino di fronte a casa mia, cara mimosa, si affacciano i tuoi rami già quasi sfioriti. Su quella cantonata c’è un lampione, con appeso il cartellone pubblicitario di una ditta di jeans. Una mano maschile disegna la tasca e le cuciture di quei pantaloni sul sedere nudo di una ragazza. Mi piacerebbe intervistare chi ha ideato e realizzato quella réclame sul significato della festa della donna e sulla considerazione che hanno della medesima. Un angolo, cara mimosa, può valere più di mille conferenze: tu quest’anno sei stata per natura abbastanza saggia da fiorire in anticipo e da non avere quasi più fiori da sacrificare sull’altare delle contraddizioni del nostro quotidiano, 8 marzo compreso. Anche per questo ti dico grazie.

8 marzo, donne, donne, eterni dei!