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Afghanistan-Iraq, una tragica illusione

di Romanello Cantini E’ facile iniziare una guerra, molto difficile mettervi fine. Questa regola sembra valere anche quando la guerra dovrebbe aver stancato per la sua durata e per il peso dei suoi morti e delle sue devastazioni. In Afghanistan la guerra dura ormai da quasi una generazione. Prima tredici anni di guerriglia contro i russi, poi quattro anni di guerra civile fra i “liberatori” dell’Unione Sovietica, poi cinque anni di regime talebano con le sue resistenze interne, infine l’ultimo anno con la ricerca, difficile e ancora macchiata di sangue, di un nuovo quasi impossibile equilibrio e di una stabilità ancora lontana dall’orizzonte. Dopo il crollo del regime talebano nel novembre dell’anno scorso si è iniziata una lenta ricostruzione più sulla carta dei generosi fondi stanziati, che nella realtà delle realizzazioni ancora da vedere. Si è avuta una parziale e timida apertura in tema di diritti civili anche se la “sharia”, le legge islamica, rimane ancora legge di Stato.

Ma un nuovo Stato è ancora tutto da costruire. Il potere del nuovo governo provvisorio guidato dal leader Karzai si estende al massimo sulle città, ma è praticamente inesistente nelle campagne. I vecchi “signori della guerra” continuano come sempre ad essere sovrani nelle loro zone trafficando con l’oppio e con il contrabbando, sostenendosi con la solidarietà dei vari gruppi tribali che ancora continuano a costituire l’unica società civile vera del Paese, sempre diffidenti se non in conflitto fra loro. Il presidente Karzai doveva avere a sua disposizione un esercito di 80 mila uomini. Di fatto, può contare solo su diverse migliaia di miliziani – tanti tagiti, appartenenti cioè alla sua etnia – come un povero re feudale che può fidare sul sostegno che gli viene solo dai suoi possedimenti personali in concorrenza con gli altri eserciti tribali operanti nel territorio. La sua fragile posizione è messa al riparo finora solo dalla forza internazionale di pace fra cui i 400 soldati italiani.

Tuttavia il mestiere di governare rimane ancora pericoloso. Il 14 febbraio scorso è stato assassinato il ministro dell’aviazione Abdul Rahman. Il 6 luglio, il vice presidente e ministro delle opere pubbliche Hagi Abdul Quadir. Il 5 settembre, quasi in coincidenza con il primo anniversario dell’assassinio del leader antitalebano Massud, che per certi aspetti sembrò una anticipazione dell’attentato dell’11 settembre al World Trade Center, anche Karzai è sfuggito miracolosamente ad un attentato per merito delle sue guardie del corpo americane.

La tecnica dell’attentato, con gli attentatori travestiti da soldato secondo le modalità dell’assassinio del presidente egiziano Sadat venti anni or sono e con l’indifferenza per la loro salvezza secondo il fanatismo degli attentatori suicidi, fa pensare ad una nuova mossa di Al Qadea, anche se in questo Afghanistan pieno di nemici e poverissimo di amici, ogni ipotesi è possibile. Così il fanatismo di Bin Laden riappare anche nel luogo della sua tana, nonostante le tonnellate di bombe usate dieci mesi fa, per snidarlo o per eliminarlo. Non solo l’imprendibilità, ma anche il ritorno del leader di Al Qaeda, nonostante la guerra e nonostante la sconfitta sul campo, dimostra come la forza delle armi da sola sia incapace di sconfiggere il terrorismo.

Al momento dell’attacco in Afghanistan gli Stati Uniti potevano contare sull’appoggio di nutriti gruppi di resistenza afgani già operanti sul territorio e a cui fu del resto affidato il compito di sconfiggere il nemico sul terreno.

Nulla di simile è invece prevedibile oggi nel territorio dell’Iraq, per cui gli Stati Uniti si dicono pronti ad un imminente attacco. Se la ricostruzione dell’Afghanistan si dimostra così difficile pur in presenza di tanti, forse troppi alleati sul posto, ognuno può considerare quanto inimmaginabile sarebbe la ricostruzione anche di un eventuale Iraq sconfitto.

In realtà una nuova guerra contro l’Iraq potrebbe, nel caos che ne seguirebbe, destabilizzare tutta la regione. Farebbe probabilmente crollare l’alleanza mondiale antiterroristica costruita così faticosamente dopo l’11 settembre. Infine con la “guerra preventiva” potrebbe saltare il diritto internazionale vigente basato sull’autodifesa e sulla dissuasione di fronte ad un attacco. Soprattutto renderebbe impossibile limitare l’uso di questo privilegio dell’attacco preventivo agli Stati Uniti e negarlo per esempio all’India nei confronti del Pakistan o agli arabi nei confronti di Israele, visto che anche in questi casi si trarrebbe di premunirsi di fronte a una minaccia nucleare. L’Onu, a questo punto, fondata sul principio della difesa di fronte ad un’aggressione, diventerebbe o un non senso o una babele di principi.