Opinioni & Commenti

«Aiutiamoli a casa loro»: le parole e i fatti

«La frase “aiutarli a casa loro”», ha osservato mons. Nunzio Galantino, «se non si dice come e quando e con quali risorse precise rischia di non bastare e di essere un modo per scrollarsi di dosso le responsabilità». I media hanno sottolineato il diverso approccio del cardinale Segretario di Stato della Santa Sede, Pietro Parolin, secondo il quale «il discorso dell’“Aiutiamoli a casa loro” è un discorso valido, nel senso che dobbiamo aiutare veramente questi Paesi nello sviluppo, in modo tale che la migrazione non sia più una realtà forzata, ma sia libera. Che sia un diritto di tutti, ma sia fatta non per costrizione, perché non si trovano nel proprio Paese le possibilità di vivere e di crescere». Dove però non si nega che partire «sia un diritto di tutti», ma si evidenzia quello di restare –  se lo si vuole – nel proprio Paese. Si tratta, in realtà, di sottolineature diverse in una prospettiva che resta in fondo unitaria, perché anche per Galantino, comunque, è importante che tutti siano liberi di scegliere: «Noi», ha precisato, «lanciamo la campagna “liberi di partire – liberi di restare” con 30 milioni dall’otto per mille di aiuti concreti».

Già l’ammissione di entrambe le alternative differenzia nettamente la posizione della gerarchia ecclesiastica da quella espressa nell’indicazione della Lega, ripresa ora da Renzi (anche se, ovviamente, in una logica diversa). Soprattutto, però, la differenza sta nell’appello alla responsabilità, che si deve concretizzare in indicazioni precise di ciò che si vuole fare. Si fa presto a dire «aiutiamoli a casa loro».  Sono anni che la Lega lo predica, ma l’ultimo governo a cui ha partecipato – presieduto da Berlusconi – fu quello che tagliò decisamente i fondi destinati dallo Stato italiano alla cooperazione internazionale. E anche oggi, chi si aggrappa a questa soluzione, a prima vista così convincente, forse non sa che, negli ultimi sei anni, gli aiuti italiani ai paesi dell’Africa subsahariana – secondo i dati pubblicati dall’Ocse nel recente Geographical Distribution of Financial Flows to Developing Countries Disbursements, Commitments, Country indicaators – hanno subito un calo del 51% (con un unico picco di rilievo, nel 2011, per una massiccia dose di aiuti alla Repubblica democratica del Congo).

La divaricazione tra le solenni dichiarazioni d’intenti e i fatti caratterizza anche la politica dell’Europa. Nel 2015 è stato creato il cosiddetto «Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa», con l’obiettivo di avviare «programmi economici che creano opportunità di lavoro, in particolare per i giovani e le donne, con un’attenzione particolare alla formazione professionale e alla creazione di micro e piccole imprese». Il Fondo doveva disporre di 2,8 miliardi, ma finora gli Stati hanno messo a disposizione solamente 378,5 milioni di euro (il 13% del totale!).

In verità, di soldi l’Unione Europea ne stanzia. Ma non per aiutare lo sviluppo dei Paesi più poveri, piuttosto per bloccare i flussi dei disgraziati che non riescono più a viverci. Così, lo Stato che ha ottenuto più soldi dall’Unione Europea è la Turchia, alla quale sono stati versati 3 miliardi con lo scopo di bloccare i profughi alle frontiere.

Questo hanno fatto finora i politici che, con l’aria di avere scoperto l’uovo di Colombo, ci dicevano ieri e ci dicono oggi: «Aiutiamoli a casa loro!». È chiaro che ha ragione il card. Parolin a evidenziare che questa sarebbe la soluzione ideale. Ma allora bisogna chiedersi perché chi l’ha propugnata non solo non l’ha realizzata, studiando piani coerenti di aiuto e finanziandoli, ma ha fatto addirittura una politica che andava esattamente nella direzione opposta.

E i motivi sono tanti. Il più immediato, forse, è che in molti casi non ci si può fidare delle classi dirigenti dei Paesi da aiutare, che dovrebbero ovviamente avere un ruolo fondamentale nella gestione degli investimenti. Sappiamo bene, in Italia, che non basta dare soldi – lo si è fatto in alcune regioni del Mezzogiorno, con risultati nulli – se poi vengono divorati da corruzione e cattiva amministrazione. In certi casi, poi, non c’è neppure un governo che possa fare da interlocutore o, se c’è, è proprio esso la fonte delle persecuzioni che inducono molti a fuggire.

Ma c’è almeno un altro motivo, che  è ancora più a monte, ed è che questo impegno di solidarietà, se perseguito seriamente, sarebbe comunque costoso, e molti governi europei non intendono chiedere alle loro rispettive popolazioni sacrifici che intacchino in qualche modo il loro tenore di vita, perché sanno che non sarebbe accettato. Così è del resto in Italia. Qualcuno dovrebbe  spiegare ai leghisti che, per «aiutare a casa loro» i poveri che oggi arrivano da noi, dovremmo fare alcuni sacrifici, riducendo gli sprechi a cui ci siamo talmente abituati da crederli necessari? Se non cambia la cultura della gente, aprendosi a una logica solidale che suppone stili di vita diversi, è futile invocare soluzioni miracolistiche.

Si facciano pure, dunque, tutti i tentativi possibili di intervenire per migliorare le condizioni di vita nei luoghi di origine. Ma intanto la via più concreta sembra, a livello internazionale, accentuare il pressing sull’Europa, anche a costo di usare toni molto duri, e, a livello interno, smetterla di sperperare soldi in una falsa accoglienza che diventa un business per gli italiani (non per gli stranieri!) e che, invece di integrazione, produce marginalità. Si elaborino strategie per consentire effettivamente agli immigrati di inserirsi. L’esperienza e i numeri dicono (a dispetto delle bugie in circolazione) che, se li si mette in condizione di lavorare (in tante attività che gli italiani non intendono più svolgere), essi producono ricchezza per se stessi e per tutti. E allora è assurdo anche fare barricate per impedire che vengano a stanziarsi nei confini del proprio comune. Non soltanto perché questo si può fare con i rifiuti tossici, non con degli esseri umani, ma perché, ben lungi dall’avvelenarci, la presenza  di questi esseri umani – se correttamente gestita – ci può far crescere.