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Alfie Evans e Vincent Lambert: non esistono vite senza valore

Papa Francesco al Regina coeli di questa terza domenica di Pasqua ha volto l’attenzione ad entrambi, estendendola ad «altre persone in diversi Paesi – ha detto – che vivono, a volte da lungo tempo, in stato di grave infermità, assistite medicalmente per i bisogni primari».

Questa sensibilità e premura del Papa è scandita da parole nette, indicative di pensieri e comportamenti da coltivare. Innanzitutto il Papa non si nasconde le fragilità e precarietà di vita di queste persone: «Sono situazioni delicate, molto dolorose e complesse». Da non affrontare in modo pregiudizievole e semplicistico, ma avveduto e ponderato. Per cui, ad ovviare l’eutanasia e l’abbandono terapeutico, non bisogna – insegna il magistero bioetico della Chiesa – scivolare in forme di accanimento clinico.

Si può e a volte si deve rinunciare a mezzi straordinari e sproporzionati di cura e consentire così la fine naturale della vita. Non si deve invece rinunziare a mezzi ordinari e proporzionati, men che meno a dar da mangiare e da bere: i «bisogni primari» di cui ha detto il Papa. Il confine tra i primi e i secondi a volte è evidente. Altre volte, per la complessità dei casi e delle offerte cliniche della medicina oggi, il confine è a contorni sfumati e indistinti. Nel qual caso la morale è per il favor vitae: in dubio pro vita. Tanto più quando ci sono le condizioni umane e ambientali di cura e sostegno, come nel caso di Vincent e di Alfie. Entrambi circondati da un’ampia e intensa sfera di premure e di affetti, che nessuna Alta Corte può disconoscere e contraddire. Inoltre ed ancor più, il Papa richiama il valore proprio e irriducibile di ogni vita umana e delle premure ad essa dovute in condizioni di infermità e di bisogno. Valore, attenzioni e premure scandite dal trittico dignità, cura e rispetto: «Ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con grande rispetto per la vita».

Parole che mettono in primo piano il malato, nella sua «dignità» singolare e inviolabile di persona. Dignità che suscita «rispetto»: il singolare riguardo e la speciale attenzione dovuti a un essere con valore di soggetto e di fine e mai di oggetto, di cosa o di mezzo. Rispetto che in presenza della malattia, della disabilità, della sofferenza prende forma di «cura».

Nel duplice e complementare significato di assistenza medica (to cure) e di presa in carico (to care). «In modo adatto – precisa il Papa – alla sua condizione» e «con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari». Memori che la medicina può e molte volte deve rinunciare a guarire, ma mai a curare. Al centro della medicina non c’è la malattia da vincere ma il malato da curare. È deludente il pensare e operare di una medicina volta ad assicurare «vite di qualità», invece di scorgere e promuovere la «qualità della vita» in ogni condizione, decorso e fase del suo essere al mondo. Non esistono vite senza valore, «inutili» e «futili» come ha sentenziato il giudice dell’Alta Corte di Londra nel caso del piccolo Alfie. Perché ogni vita vale per il suo «esserci», non per il suo «modo di essere».