Opinioni & Commenti

Alla faccia delle statistiche il modello di padre è uno solo

di Riccardo Bigi

Lunedì 19 marzo, festa di San Giuseppe. E in Italia, per tradizione, anche festa del papà. Ma siamo sicuri che noi padri, oggi, ci meritiamo di essere festeggiati?

All’inizio ci si era messa la psicanalisi: era la fine degli anni ’60 quando Lacan definiva l’epoca contemporanea come l’epoca dell’«evaporazione del padre». L’immagine del pater familias, del padre autoritario era al tramonto. Era un modello che andava sostituito. Ma come?

Nel corso di questi cinquant’anni abbiamo imparato a cambiare pannolini, a svegliarci di notte quando i bimbi chiamano, a trascorrere il tempo libero giocando con i figli. Pure troppo. Adesso il Censis (in una ricerca del 2011) ci dice che siamo diventati «padri ludici». Aumenta il tempo che i padri dedicano alla famiglia, e soprattutto alle attività di cura dei bambini, alle quali si dedica oltre il 55% dei padri per un tempo quotidiano medio di 1 ora e 24 minuti. La ricerca però dice che solo per il gioco, il tempo dedicato dai padri ai figli è maggiore di quello dedicato dalle madri. Uno psichiatra di moda come Paolo Crepet ci mette il carico da undici: nel suo libro L’autorità perduta scrive che «l’ingresso della figura paterna nella quotidianità familiare ha messo in luce fragilità inaspettate». E parla, senza tanti complimenti, di «padre debole», incapace – citando un altro saggio di grande fortuna di una psicoterapeuta inglese, Asha Phillips – di dire ai figli i «no che aiutano a crescere». Stiamo più tempo con i bambini, dunque, ma senza contribuire granché alla loro formazione. Dare regole e norme di comportamento, richiamare doveri e responsabilità: per questo ci sono già quelle brontolone delle mamme…

Se le scienze umane ci dipingono così, almeno la Chiesa ci dirà una parola buona? L’enciclica di Giovanni Paolo II sulla famiglia, la Familiaris consortio, ci dà una boccata d’ossigeno: «Il posto e il compito del padre nella e per la famiglia sono di un’importanza unica e insostituibile». Poi però anche il Papa ci rivolge, in maniera bonaria ma perentoria, un invito a «un impegno educativo più sollecito e condiviso con la propria sposa». Ecco il problema: l’impegno educativo. E qui dobbiamo ammetterlo: cambiare i pannolini si può imparare, giocare con i figli può anche essere divertente. Ma educarli è un’altra storia. Qui le mamme, forti della loro millenaria esperienza, sono troppo superiori. Già: a proposito di educazione, cosa dicono gli orientamenti pastorali, «Educare alla vita buona del Vangelo»? I vescovi italiani ci spiegano che «l’apporto di padre e madre, nella loro complementarità, ha un influsso decisivo nella vita dei figli. Spetta ai genitori assicurare loro la cura e l’affetto, l’orizzonte di senso e l’orientamento nel mondo». Poi però, implacabili, aggiungono: «Oggi viene enfatizzata la dimensione materna, mentre appare più debole e marginale la figura paterna».

Evaporati, giocherelloni, fragili, deboli e pure marginali. La festa del papà ci trova in queste condizioni. C’è da festeggiare, allora? Sì, perché la Chiesa, nella sua saggezza, con la scusa della festa in realtà ci aiuta a capire chi siamo veramente, offrendoci un modello. Un modello di padre che lavora ma non trascura la famiglia, che accompagna il figlio al tempio, che in caso di pericolo lo protegge portandolo fino in Egitto. Un padre non autoritario ma autorevole. Un padre buono ma anche forte. Un padre che educa. Noi padri del terzo millennio vogliamo essere così, o almeno ci proviamo. In barba a tutti gli psicanalisti, statistici, psichiatri e psicologi del mondo: buon San Giuseppe, festa del papà.