Opinioni & Commenti

Aperture domenicali: il lavoro festivo tra etica ed economia

di Pier Angelo Mori

Per il cristiano la domenica è in senso letterale dies dominicus, il giorno del Signore, che del sabato ebraico è l’erede diretto, pur differenziandosi alquanto da esso: sulla falsariga dello shabbat degli ebrei la domenica cristiana è il giorno dedicato al Signore ma non solo, come ci spiega Gesù stesso in un noto passo del Vangelo. Gesù e i suoi discepoli attraversano di sabato un campo di grano e, avendo fame, colgono alcune spighe per mangiarle. I farisei osservano e contestano che essi abbiano colto le spighe – e quindi lavorato – perché secondo la loro interpretazione della legge il lavoro è sempre e comunque vietato durante il sabato. Ma Gesù afferma chiaramente che non c’è nessuna colpa («Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato», Mc 2,27), e indica un altro modo di intendere il sabato e quindi anche la domenica cristiana: questo è il giorno del Signore ma è al contempo anche il giorno dell’uomo. Si può perfino rovesciare il percorso logico prendendo quest’ultimo come punto di partenza: il sabato è il giorno dedicato alla valorizzazione dell’uomo, che non può non essere incentrata sul rapporto con Dio e quindi, in modo necessario, è anche giorno del Signore. Comunque lo si voglia vedere, questi due termini sono in ogni caso inscindibili. Gesù non abolisce la legge ma anche qui come in altri campi la espande e la perfeziona.

Va notato che la deroga al divieto del lavoro è affermata da Gesù con riferimento a un problema specifico, che arricchisce di significato la priorità dell’uomo sul sabato. La deroga è infatti associata a un bisogno basilare (fame) che merita di essere soddisfatto (prima l’uomo deve vivere e solo se vive in salute può degnamente rapportarsi a Dio). Il significato è chiaro: l’uomo può soprassedere alle esigenze rituali del sabato per andare incontro a bisogni fondamentali, non a un bisogno qualsiasi. Questo ci riporta all’attualità e in particolare alla vexata quaestio del lavoro festivo nel commercio.

Nelle società cristiane il problema del lavoro festivo è stato affrontato in modo semplice e lineare. La domenica (e con essa gli altri giorni festivi) è giorno di riposo dal lavoro per consentire le pratiche religiose ma anche, e non secondariamente secondo l’insegnamento di Gesù stesso, quelle attività di relazione, in primo luogo con i propri familiari, che contribuiscono ad arricchire l’uomo e fanno parte della sua essenza. Tuttavia sono da sempre ammesse eccezioni che hanno lo stesso carattere, al fondo, della raccolta delle spighe nell’episodio evangelico: ci sono lavori essenziali per la sopravvivenza propria o di altri in campi come la sanità, l’assistenza, la sicurezza e la difesa, ecc., che non possono e non debbono essere sospesi per la festività.

Il sabato è per l’uomo e non viceversa. L’elenco dei lavori ammessi nelle festività è ovviamente variabile nel tempo e nello spazio, ma tradizionalmente non ha mai riguardato – se non in casi particolari e circoscritti – il lavoro nel commercio.

Da qualche tempo la prassi è cambiata e anche in Italia si sono diffuse le aperture festive degli esercizi commerciali.

In questi giorni abbiamo assistito in Toscana a un rinfocolarsi delle polemiche per la richiesta di ulteriori aperture festive da parte di alcuni operatori. Su questo è da registrare la posizione autorevole di Turiddo Campaini, attualmente presidente del consiglio di sorveglianza di Unicoop Firenze e in precedenza presidente della stessa società, nonché esponente di spicco della cooperazione a livello nazionale. Dice Campaini: estendere le aperture festive oltre il livello attuale avrebbe costi economici e sociali eccessivi e di conseguenza è auspicabile una regolazione pubblica che affronti il problema. Un intervento del genere può essere giustificato solo sul piano etico, religioso o laico che sia, o può avere anche una giustificazione oggettiva, indipendente dal credo etico? L’economia ci dà una mano in questo.

I maggiori costi aziendali che le aperture domenicali comportano (principalmente per il lavoro straordinario) si accompagnano a benefici commerciali (maggiori volumi di vendita), che almeno per certe aziende del settore e in alcuni momenti hanno reso convenienti le aperture festive. Il problema è che sotto la spinta della concorrenza gli operatori sono indotti a superare il punto di equilibrio tra costi e benefici individuali e, come nel classico dilemma del prigioniero, e ciò genera perdite di benessere collettivo, che sono a pieno titolo un costo sociale. Questo effetto indesiderabile tende a rafforzarsi in periodi di crisi come l’attuale, in quanto la riduzione congiunturale delle vendite riduce il beneficio delle aperture e, a parità del costo del lavoro straordinario, le perdite di benessere sociale aumentano. Laddove c’è perdita di benessere sociale c’è anche spazio per un intervento pubblico che ne rimuova la cause, in questo caso limitando le aperture festive.

Questi costi sociali di origine strettamente economica non sono tuttavia gli unici. Campaini fa cenno anche a altri costi sociali che non si possono non considerare, e tanto più nell’ottica del credente: sono i costi che egli chiama di coesione sociale. La discrasia temporale tra i periodi di riposo delle diverse categorie di lavoratori ha ovvi effetti negativi sulla coesione sociale, rendendo più difficili le relazioni tra persone, in primo luogo all’interno delle famiglie. Questo ha ripercussioni negative sul benessere sociale, il quale anche per la scienza economica, è bene ricordarlo, non dipende solo da variabili economiche. La coesione sociale è un fattore di benessere sociale e in quanto tale è un interesse generale della collettività. Una società che trascura questo aspetto essenziale della propria vita non è sana sul piano etico, sia religioso che laico, e, paradossalmente, rischia di non avere neppure una sana economia: religione, etica e economia non sono sempre in conflitto e il problema delle aperture festive è lì a dimostrarlo.