Opinioni & Commenti

Art. 18, troppi «urli», poche prospettive

DI PIERO TANILa questione delle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha acquistato un significato politico così forte che ormai non se ne può parlare se non schierandosi per il sì o per il no, per il governo o per il sindacato. L’importanza del tema generale in cui questa modifica s’inserisce – la flessibilità del mercato del lavoro – richiede invece un’analisi e una discussione meno perentorie.Si è detto che le modifiche proposte all’articolo 18 sono di scarso rilievo, che riguardano un insieme assai ristretto di lavoratori, e che si è accesa una grande battaglia solo perché la questione ha ormai un significato simbolico. Opinioni condivisibili, con una precisazione: che tale significato non si limita ai rapporti tra governo e sindacati, ma riguarda soprattutto il messaggio che il governo, con questo provvedimento, vuole trasmettere alle imprese. Non si spiegherebbe altrimenti come si possano conciliare la dichiarata poca importanza con i risultati (migliaia di nuovi posti di lavoro) che ci si ripromette di ottenerne. Un provvedimento anche così limitato può essere letto come il segnale che il clima è cambiato, che alle imprese sarà consentita una libertà maggiore, in tema di contratti di lavoro, e in particolare di licenziabilità, e quindi che altri provvedimenti più significativi seguiranno.Se questa è la prospettiva, si può capire che i sindacati facciano un’opposizione forte ad una modifica che annuncia un cambiamento radicale di indirizzo senza renderne chiare le caratteristiche e, soprattutto, senza indicare in quale misura il peso che viene tolto dalle spalle delle imprese potrà eventualmente essere assunto da interventi pubblici. Meno giustificabili le parole davvero pesanti usate dai sindacati riguardo alle garanzie che verrebbero ridotte con le modifiche all’articolo 18: se davvero fossero in gioco diritti irrinunciabili di libertà e dignità della persona, sarebbe difficile accettare le esclusioni da tali garanzie che già oggi si hanno per tanti lavoratori. Per queste posizioni radicali e non sempre coerenti, i sindacati sono stati accusati di uscire dal loro ruolo specifico e di «fare politica». Ma qui si dimentica che il ruolo politico dei sindacati è stato finora richiesto esplicitamente e ha anche avuto una funzione positiva nel far accettare interventi difficili. È legittimo che questo governo voglia modificare questa situazione e ridimensionare l’ambito di azione e il peso dei sindacati, ma è poco produttivo che questo passaggio cruciale non sia discusso e, almeno in parte, contrattato con gli stessi sindacati. Nel dibattito vi è un apparente accordo sul fatto che una maggiore flessibilità sia necessaria. Ma su molti aspetti centrali del problema restano non poche incertezze. Intanto, non si sottolinea abbastanza che nel nostro sistema è già stata introdotta una buona dose di flessibilità, dal momento che la maggior parte delle nuove assunzioni avviene oggi con contratti che non garantiscono alcuna stabilità al lavoratore. Si dà anche poco spazio alla considerazione che la flessibilità cui si tende deve manifestarsi anche a favore dei lavoratori, con la possibilità di lasciare un posto di lavoro poco gradito per passare ad un impiego più vicino alle proprie capacità e alla propria vocazione, contribuendo così anche a una maggiore efficienza del sistema produttivo. Una possibilità che si ottiene – oltre che, ovviamente, con un più alto tasso di occupazione – con istituzioni efficienti nel campo dell’orientamento, dell’informazione, della formazione: i cambiamenti avviati non sembrano ancora sufficienti ed efficaci. D’altra parte, comunque definita, la flessibilità comporta per i lavoratori un costo in termini di garanzia al mantenimento del posto di lavoro: la posizione dei sindacati resta incerta riguardo alla misura e alle forme con cui si è disposti ad accettare un tale costo. Una direzione non sufficientemente esplorata è quella dei possibili allargamenti del concetto di giusta causa. Vi è una differenza molto sensibile tra procedure che facilitino la possibilità di licenziamento per l’impresa in difficoltà economiche e maggiore facilità per licenziamenti dovuti allo scarso gradimento per uno specifico lavoratore: qui più facilmente possono crearsi le premesse per discriminazioni, in particolare per sesso e per età.La ripresa del confronto tra le parti avviene in un clima sociale, aggravato dal feroce assassinio di Marco Biagi e dalla minaccia di una possibile nuova fase di terrorismo, ed esasperato da inaccettabili collegamenti tra la violenza terroristica e le manifestazioni sindacali; non ci sono prospettive facili di accordo. Non aiutano alla ricerca di un’intesa il rifiuto radicale dei sindacati di discutere sull’articolo 18, quando molti esperti, anche non sospettabili di simpatie per il governo, ritengono che alcune modifiche sarebbero necessarie, magari in parte con un segno diverso da quello proposto dal Governo. Ma non aiuta neppure il fatto che il Governo proponga una modifica di quell’articolo isolata da altre possibili riforme – anche con funzione compensativa – di regolamentazione del mercato del lavoro.

Le due facce del «18»