Opinioni & Commenti

Betori e il Concistoro: «don Giuseppe», cardinale

di Dino Boffo

Chi per lunghi anni è stato prima sottosegretario e poi segretario generale della Conferenza episcopale italiana; chi ha organizzato innumerevoli sessioni dell’assemblea generale e del Consiglio permanente dei vescovi; chi ha dato un contributo – differentemente – decisivo a ben due Convegni ecclesiali (Palermo e Verona); chi ha contribuito a costruire passo dopo passo documenti, messaggi e lettere a iosa; chi ha seguito la «macchina» centrale di una Conferenza episcopale complessa come quella italiana; e solo negli ultimi tempi si è visto affidare una diocesi importante come la Chiesa fiorentina; un vescovo così, ad un osservatore pigro e scontato, potrebbe suggerire l’immagine di un burocrate, intelligente e illuminato finché si vuole, ma pur sempre votato all’organizzazione, alla gestione, alla regia.

Invece l’arcivescovo Giuseppe, prossimo cardinale, per come lo conosco (da tempo e, credo, abbastanza bene), è intrinsecamente pastore, formatosi nel clima intenso e tormentato del dopo-Concilio, e sempre rimasto tale, cioè il prete che era quando seguiva i suoi giovani di Foligno, i giovani dell’Ac o i catechisti di quella diocesi, per i quali ancora oggi egli è il «don Giuseppe» di sempre. Il don Giuseppe cresciuto in una famiglia affettuosa ma austera, con una mamma che mirava all’essenziale e anche al figlio sacerdote ingiungeva quel che per un prete vale e quello che è invece orpello inutile o ambizione impropria. I tanti anni trascorsi in Circonvallazione Aurelia, a Roma, non sono riusciti – a me pare – a cancellarne il tratto caratteristico, quello del sacerdote votato all’educazione, alla catechesi, ai giovani. L’uomo che ti guarda in faccia e in te vede anzitutto la persona, non un ruolo o un quadro o un incarico. Vede la persona dotata di una o l’altra qualità, certo, ma prima ancora di una sensibilità e di un proprio mondo da rispettare. Una persona con la quale entrare in relazione, perché poi questo è ciò che conta nella comunità ecclesiale: costruire relazioni di amicizia, di stima vicendevole, di collaborazione operosa.

Non è un equilibrio facile. Ogni «macchina» – sì, anche la «macchina» ecclesiale – tende fatalmente a ostacolare, appiattire e cristallizzare le relazioni riducendole a ruoli e competenze, grazie alle quali magari dissimulare e mascherare. So, per esperienza diretta, che rispetto a questa tentazione fatale «don Giuseppe» – mi prendo la libertà di chiamarlo ancora una volta così – è riuscito a resistere con tenacia, senza sottrarsi neanche per un centimetro al suo profilo e alla sua capacità di azzardo, di rischiare cioè sulle persone e sulla loro onestà di fondo, il loro senso di responsabilità, il dovere che ciascuno ha di essere se stesso, secondo vocazione.

Una cosa su tante vorrei ricordare. Lavorando con lui non mi è capitato di cogliere moti di stizza verso il laicato o verso l’apporto naturalmente diverso che il singolo laico può porgere nel pensare alle condizioni con cui è chiamata a misurarsi la Chiesa. Anzi, mi stupiva (in bene) che fosse lui in genere a sollecitare un parere, magari anche assai diverso dal proprio. E qui – bisogna dirlo – è rilevabile una diversità fatale con la leva sacerdotale appena successiva, per la quale non raramente i Christifideles o si pongono come manovali ossequienti, che accettano di entrare in servizio per tappare buchi o coprire falle, o fatalmente vengono d’ufficio iscritti nell’elenco di pretenziosi laici speciali, quasi si trattasse di una super congrega che disturba e «rompe». Il laicato insomma inteso non come un competitor minaccioso ma espressione di una comune tensione verso la maturità.

Riuscirà «don Giuseppe» a mantenere questo suo articolato profilo anche con la porpora sulle spalle, e quindi da stretto collaboratore del Santo Padre? La domanda – lo riconosco – è sbagliata. Quella giusta è un’altra, e può suonare retorica: come potrebbe rinunciare al suo doppio profilo pur indossando la porpora, pur da stretto collaboratore del papa? L’arcivescovo Betori – «don Giuseppe» – è così, e non potrebbe essere altrimenti. Per temperamento può apparire timido, ma sbaglia chi pensa manchi di coraggio. È educatore e prete fino in fondo. Il cardinale Betori, insieme agli altri porporati, si troverà in futuro a dover compiere – in comunione stretta con il Papa e in aiuto allo stesso – scelte delicate e decisive per le sorti della cattolicità universale. È alle porte il cinquantesimo del Concilio Vaticano II e la memoria viva delle scelte irreversibili che lì si sono compiute, nel segno di una innovativa continuità, specialmente sul fronte della nuova evangelizzazione. Ebbene, a scegliere non sarà un grigio burocrate, capace finché si vuole ma freddo e calcolatore, così come talora fin troppi cardinali sono rappresentati da certa informazione, certi libri e certi film; ma sarà un uomo che conosce bene gli uomini, perché uomo egli stesso che non delega le proprie responsabilità e mette al centro il bene della fede, il bene delle persone per le quali la «macchina» esiste, e non viceversa.

E pazienza… Pazienza se il suo linguaggio continuerà a essere comprensibile. Pazienza se continuerà a essere affabile e ad accorciare le distanze; pazienza se la sua umanità non verrà a patti con la verità (questo mai). Pazienza… Una pazienza ironica, come impareggiabilmente ironici sanno essere i fiorentini.

Intervista al card. Betori