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Caso Parmalat, i pessimi affari di una finanza senza etica

div class=firma>di Stefano FontanaIl 2 dicembre 2001 veniva presentata istanza di fallimento della Enron, la famosa società americana diventata emblema della instabilità finanziaria delle grandi corporations nell’era della globalizzazione. Sorprendono le affinità con il caso Parmalat e, prima ancora, con quello della Cirio: indebitamento eccessivo, operazioni finanziarie ad altissimo rischio, incapacità di tutti gli anelli di controllo ad accorgersi delle reali condizioni finanziarie, nessuno che abbia denunciato le irregolarità. Semmai il caso Parmalat dovesse differenziarsi da quello della Enron sarebbe per le irregolarità contabili o, a leggere i giornali che riportano i primi risultati delle indagini in corso, addirittura per i falsi. Uguali anche le conseguenze negative per i piccoli azionisti, i creditori e i dipendenti. Uguale anche la psicosi del «maggiore controllo», ossia la tendenza a concentrarsi su un’unica soluzione, consistente nel rendere più efficaci le regole e le misure del controllo.

Certamente questo è necessario, ma non risolve completamente i problemi per almeno due motivi. Il primo è che i controlli inducono a ritenere che sia inutile la denuncia, tanto «spetta a chi controlla». Il secondo è di tipo più strutturale: a parte i casi di falso, è di fatto sempre più problematica la valutazione delle risorse immateriali delle aziende, il cui cambiamento può influire sul valore di mercato dell’azienda, indipendentemente dai conti finanziari.

Quest’ultimo aspetto merita di essere approfondito. Dietro a crac come quello della Parmalat, al di là, lo ripetiamo, di comportamenti eticamente sanzionabili, c’è il grosso problema della corrispondenza tra economia reale e finanza. Fino all’inverno 2001 la Enron era considerata dalle riviste specializzate una delle società meglio gestite. Segno che ormai tra gestione economica e vita finanziaria c’è un divario che sempre maggiormente non si riesce a colmare. La cosa è dimostrata anche dal fatto che le grandi corporations sono sempre più in mano ai manager. L’identità tra proprietà e management per le grandi società non esiste più ormai da decenni, tuttavia la situazione attuale di tanti micro-azionisti e dell’enorme potere dei manager è un problema cui mettere mano. Non solo il potere ma anche gli utili ormai sono passati dagli azionisti ai manager. Anche per alcuni altri problemi a esso conseguenti.

Per esempio i molteplici casi di conflitto di interessi: tra chi fa l’analisi di mercato per quella certa azienda e contemporaneamente siede nel suo consiglio di amministrazione; tra chi deve collocare sul mercato le obbligazioni di quella società e contemporaneamente ne è il massimo creditore e siede nel consiglio di amministrazione. L’indipendenza dei consigli di amministrazione, o almeno della loro maggioranza, è un principio da difendere.

Questo intreccio impedisce spesso la circolazione delle informazioni. La cosa sembra assolutamente paradossale, date le numerose testate specializzate, le società di rating, gli organi di controllo interni ed esterni alle società. Di fatto gli azionisti Parmalat sono venuti a sapere della situazione solo il 19 dicembre, quando le enormi difficoltà erano già note da almeno dieci giorni. Le obbligazioni Cirio continuavano ad essere collocate sul mercato dalle banche quando la difficoltà della società era già conosciuta.

L’affare Parmalat, in altre parole, ripropone tutti i maggiori quesiti relativi oggi all’etica della finanza. Occorre però sempre tenere presente che queste problematiche si affrontano su due piani: quello delle strutture e delle leggi e quello della responsabilità personale. C’è bisogno di controlli più efficaci, di adeguare i controlli alla dimensione globale in cui ormai si muove la finanza, bisogna prevedere obblighi di fornire informazioni al pubblico e altre iniziative. Ma c’è bisogno anche di Business Ethics, di un’etica della finanza incarnata negli operatori stessi.