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Con la vittoria di Netanyahu Israele si isola dal mondo

Il 13 settembre di ventidue anni fa sul grande prato verde della Casa Bianca davanti al presidente Clinton le televisioni di tutto il mondo riprendevano un avvenimento che parve storico. Il leader palestinese Arafat e il premier israeliano Rabin si stringevano la mano e promettevano il riconoscimento reciproco di uno stato israeliano e di uno stato palestinese come premessa della pace fra i due popoli. Disse in quella occasione Arafat: «Por fine ai sentimenti di chi ritiene di essere stato maltrattato e di aver subito una ingiustizia storica costituisce la più sicura garanzia di potere arrivare alla coesistenza e alla reciproca comprensione». Rabin da parte sua aggiunse: «Noi veniamo da una terra di sofferenza e di angoscia, da un popolo che non ha conosciuto né un solo anno né un solo mese in cui le madri non abbiano pianto i loro figli; noi veniamo per tentare di porre fine alle ostilità affinché i nostri figli e i figli dei nostri figli non debbano più pagare il doloroso tributo della guerra, della violenza e del terrore».

Quelle promesse solenni non ebbero seguito. La violenza è continuata per altri vent’anni e oltre. Eppure, nonostante gli attentati terroristici, gli assassini mirati, le due «guerre delle pietre», le ripetute incursioni da e contro Gaza fino a quella dell’estate scorsa (70 morti di parte israeliana e 2.147 morti di parte palestinese) quell’impegno seppure generico di accettare due stati in una Palestina finalmente pacificata non era mai stato sconfessato. Ancora nel giugno dell’anno scorso anche Netanyahu, parlando alla università di Bar-Ilan a Tel Aviv, aveva evocato la coesistenza pacifica fra i due stati. I palestinesi potevano credere, se lo volevano, in una terra promessa anche per loro anche se non si sapeva ancora né come né quando. Vero è che, soprattutto con il governo di Netanyahu, tutta una serie di atti facevano a pugni con quella parola data da ormai più di venti anni. Fra questi prima di tutto la massiccia colonizzazione ebraica dei territori occupati e soprattutto di Gerusalemme Est contro cui fra gli altri hanno protestato il 10 ottobre scorso insieme agli arabi palestinesi il patriarca latino emerito monsignor Michel Sabbah, l’arcivescovo del patriarcato greco ortodosso Hanna Atallah e il vescovo della Chiesa luterana di Giordania Munih Youssan. Poi si è affacciata sempre più concreta all’orizzonte la trasformazione definitiva di Israele in «stato ebraico» approvata dal consiglio dei ministri il 19 novembre scorso con il rischio di trasformare in cittadini di serie B il milione e seicentomila arabi israeliani e le minoranze cristiane sotto la bandiera con la stella di David, l’inno nazionale dedicato al ritorno degli ebrei a Sion e soprattutto con il rifiuto del ritorno dei profughi arabi non considerati cittadini di uno stato che si chiama appunto ebraico.

Alla fine, per rovesciare un verdetto elettorale che sembrava perdente, Netanyahu ha affermato negli ultimi giorni della campagna elettorale che finché lui sarà al potere non ci sarà uno stato palestinese e che la colonizzazione di Gerusalemme continuerà senza limiti. E Netanyahu ha vinto facendo appello ai sentimenti più istintivi della maggioranza della popolazione israeliana.

Ma il successo di Netanyahu in patria rischia di risolversi in un disastro di fronte al resto del mondo.

Mai nessun altro governo israeliano aveva condotto ad un tale isolamento di Israele. Quasi dovunque, salvo che in casa propria, i palestinesi trovano ormai la porta aperta. Nel 2011 lo stato palestinese è entrato a far parte dell’Unesco. Nel 2012 è stato ammesso all’Onu come osservatore con l’approvazione di 138 stati. Tre mesi fa è stato ammesso alla Corte di giustizia penale internazionale. Negli ultimi due anni hanno riconosciuto lo stato palestinese i parlamenti di Francia, Spagna, Irlanda Portogallo e Svezia e nel dicembre scorso è stato riconosciuto dal parlamento europeo. Lo stesso Obama che finora ha protetto Israele davanti all’Onu con i suoi veti potrebbe non fare altrettanto di fronte alla nuova deliberazioni che si sta preparando al Palazzo di Vetro e che questa volta pone un limite temporale alla occupazione israeliana dei territori occupati. L’irritazione del presidente americano è stata esplicita non solo per la svolta di Netanyahu sullo stato palestinese, ma anche per il suo continuo sabotaggio di quell’accordo sul nucleare con l’Iran che ormai alla Casa Bianca si comincia a definire addirittura «storico».

Di fronte a questo isolamento quasi totale Netanyahu ha corretto parzialmente il tiro affermando sostanzialmente che non ci sarà per lui stato palestinese finché al suo interno ci saranno estremisti. Il che vuol dire rinviare il tutto non solo alle calende greche, ma al giudizio di ammissione di Netanyahu sullo stato palestinese come entità tranquilla e innocua. Insomma la eventuale pace della più lunga guerra dell’età moderna si allontana di nuovo al di là di qualsiasi possibile immaginazione sull’era della sua incarnazione. Come ha scritto lo scrittore israeliano Yoram Kaniuk, «da novant’anni ormai si prende di mira e si è presi di mira, si uccide e si è uccisi, sempre a ragione o a torto, sempre per un pezzo di terra così piccola che sulla carta geografica bisogna scrivere il suo nome sul mare».