Contro l'assuefazione alla violenza serve un nuovo balzo di civiltà
È nella natura umana: ci adattiamo. L’adattamento per l’umanità è stato, nel corso dell’evoluzione, sinonimo di sopravvivenza di fronte alle difficoltà. Ma accanto ad adattamento sta la parola assuefazione e questa, spostando l’ambito dal biologico all’etico, si gemella con un altro termine: assuefazione. Il confine tra questi termini non è chiaro. L’area di contiguità è sfumata: si inizia credendo di avere conquistato un traguardo in una situazione ostile e ci si ritrova regrediti a livelli a cui non avremmo mai pensato. Sì, perché accanto a assuefazione c’è un’altra parola, terribile: cinismo.

È un processo individuale e di massa che avviene anche con l’informazione. Non a caso Papa Francesco ha parlato di “globalizzazione dell’indifferenza”. Da decenni immagini rapite in circostanze molto particolari da persone occasionalmente presenti o da professionisti, segnano fenomeni, processi sociali e politici, scoperchiano e condividono ciò che sarebbe rimasto solo locale o occultato. Sono immagini simbolo che si scolpiscono nella memoria collettiva che negli ultimi tempi sono arrivate sui nostri schermi, televisivi o smartphone. Il corpicino di un bambino morto su un bagnasciuga, gli sguardi impietriti di angoscia di donne incinte sbarcate sulle nostre coste, fili spinati e muri a segnare confine ridicoli, uomini messi a fuoco dentro gabbie esposte al pubblico, parti del pianeta che si sbriciolano avvelenate, sommate alle altre decine e centinaia di immagini, ci facevano domandare se non stessimo diventando tutti cinici, se l’inizio del terzo millennio potesse essere descrito da questa cifra.
Poi è arrivata l’immagine degli infiniti minuti di quel ginocchio del poliziotto Derek Chavin di Minneapolis che lentamente soffocava George Floyd: la figura che avrebbe dovuto tutelare i deboli contro l’ingiustizia diventava il simbolo della violenza cieca dell’odio razziale. E quell’immagine, imprevedibilmente, ha mosso il mondo. In poche ore un intero continente e poi tutto il mondo sono stati percorsi da un brivido che ha segnato uno stop. Quell’immagine ha varcato una soglia che felicemente scopriamo essere presente anche negli uomini e nelle donne di questo millennio: la soglia dell’indignazione. Il sentire indignato è come una riscossa dell’umano quando vengono ferite le radici più profonde dell’esistenza ed è un sentire rischioso perché affiora con un convincimento intimo per cui tacere equivarrebbe a morire: smarrire l’umano è come non aver più nulla da perdere. Il sentire indignato è un rischio perché, come emerge, è immediatamente a un bivio: agire in modo da non produrre nuova ingiustizia oppure lasciarsi guidare dalla rabbia che si trasforma in ulteriore violenza.
"I can't breathe" (non posso respirare) hanno iniziato a cantare gli statunitensi per le strade, convinti che «Il razzismo compromette, quando non corrode, tutti gli sforzi americani di costruire un mondo migliore - qui, lì o ovunque». Quel coro è divenuto un respiro mondiale.
Ponendomi idealmente al Lincoln Memorial di Washington, nel luogo in cui Martin Luther King, il 28 agosto 1963, pronunciò il discorso che ricordiamo come «I have a dream» («Io ho un sogno»), mi pare di scorgere un’immagine che non è sbiadita, ma è viva, in mezzo a inimmaginabili novità e contraddizioni. La nuova generazione riprende il testimone e attraersando la faglia epocale, il conflitto del nostro tempo che ha fratturato ogni relazione, ogni antico equilibrio, non rinuncia al proprio compito di speranza e di giustizia, riprende il cammino per un nuovo balzo di civiltà.
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