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Corea del Nord, la via difficile del dialogo

DI ROMANELLO CANTINIRiaprire un dialogo a 360° con i membri del “club atomico”Dopo l’annuncio del primo esperimento nucleare da parte della Corea del Nord, le potenze atomiche nel mondo sono diventate 9. Nel caso dell’ultima arrivata nel club esclusivo, dove stanno, fra gli altri, Stati del calibro degli Stati uniti, della Russia e della Cina, parlare di potenza appare un’ironia.

La Corea del Nord è un Paese di 22 milioni di abitanti, sottoposto a periodiche carestie che l’orgoglio nazionalistico cerca inutilmente di nascondere e che fanno dipendere dall’aiuto internazionale il mantenimento di un terzo della sua popolazione. Dopo che anche l’India e il Pakistan si sono dotati di un armamento atomico, questo è il terzo Paese che, nonostante le sue grandi sacche di povertà, preferisce dedicarsi ad arricchire l’uranio anziché i suoi cittadini. Un regime, che in un Paese povero mantiene un esercito di 1 milione di soldati e una nomenclatura di 3 milioni di persone, preoccupa per i suoi tic di irrazionalità nel momento in cui il suo armamento atomico avrebbe bisogno di essere custodito almeno da grande senso di responsabilità e saggezza. Ma, al di là delle considerazioni interne nord-coreane, il dato più importante è che ora l’equilibrio militare in Asia – e non solo – appare in gran parte sconvolto.

Non solo la Cina vede sfuggire al suo controllo uno Stato di cui finora si era immaginata di essere il tutore onnipotente. La Corea del Sud, che non ha ancora dimenticato quella mattina del giugno 1950 quando le truppe nord-corane varcarono all’improvviso il suo confine e che finora ha cercato di sanare questa ferita ancora aperta con una riunificazione favorita soprattutto dal suo progresso economico, si trova di fronte a una nuova sfida. Il Giappone, massima potenza asiatica e superpotenza economica mondiale, membro del G8 e candidato al Consiglio di sicurezza dell’Onu, si sente umiliato al confronto di un nano economico che l’arma nucleare rende ora un gigante politico.

Dopo il Trattato di non proliferazione, firmato da oltre 170 Stati, le potenze atomiche sono state congelate nel numero quasi canonico di 5 per circa 30 anni, nonostante le bombe segrete di Israele. Ma ora, dopo gli esperimenti atomici di India e Pakistan di 8 anni fa, dopo la sfida dell’Iran e la provocazione della Corea del Nord, la corsa all’armamento atomico rischia di riprendere in grande stile. Paesi come il Brasile, l’Argentina, l’Africa del Sud e la Libia, persuasi finora a bloccare i loro programmi atomici in fase avanzata, possono di nuovo rompere le righe. L’eccezione può divenire quasi una regola con l’angoscia di un prossimo futuro in cui i possessori di armi atomiche non si conteranno più sulle dita di una mano; con l’incognita del pazzo che si infila nel grande numero per il semplice calcolo delle probabilità; con l’incubo degli incubi di un 11 settembre, questa volta prodotto non da un aereo dirottato, ma da un’arma atomica comprata non si sa da chi e portata non si sa in quale veicolo suicida al centro di una città di milioni di abitanti.

Se il rischio ora diventa più alto, bisogna riconoscere anche che gli errori della Comunità internazionale e, soprattutto, della politica americana degli ultimi 15 anni hanno grandemente contribuito a questo insuccesso politico di contenere la proliferazione nucleare. L’accordo raggiunto nel 1994 fra Pyongyang e Washington, per cui la Corea del Nord rinunciava all’arricchimento del plutonio in cambio della fornitura di due centrali nucleari cosiddette ad acqua leggera e dell’abolizione delle sanzioni americane, fu sabotato alla fine dal presidente Clinton. Un nuovo accordo raggiunto nel 2000 per una sospensione degli esperimenti missilistici nord-coreani non fu ratificato per l’opposizione repubblicana al Senato americano. L’ultimo accordo di principio, siglato nel settembre dell’anno scorso, che prevedeva il disarmo della Corea del Nord in cambio di generiche garanzie di sicurezza non ha avuto poi nessun seguito concreto da parte dei sei interlocutori (Cina, le due Coree, gli Stati Uniti, Giappone e Russia) che l’avevano promosso.

Ora è tutto più difficile. Ma, scartata come assurda o assolutamente inimmaginabile ogni soluzione di forza e, dando per scontata anche la scarsa efficacia di eventuali sanzioni nei confronti di un regime così poco preoccupato del benessere della sua popolazione, non ci si può nemmeno rassegnare allo spettro di un mondo, dove il bottone nucleare diventi lo status symbol di qualsiasi governante che voglia essere ritenuto appena importante.

La via difficile, ma alla fine più produttiva, è quella di riaprire un dialogo a 360° che riguardi non solo i nuovi ma anche i più antichi membri del club atomico e che tenga conto del fatto troppo spesso dimenticato che il Trattato di non proliferazione non solo vieta nuove potenze nucleari, ma prevede anche la fornitura di energia atomica a scopo pacifico e, infine, il disarmo di chi le armi atomiche ce l’ha già.

È stato forse un segno del destino che negli stessi giorni in cui la Corea del Nord ha fatto esplodere la sua prima bomba, Ban Ki-Moon, ministro degli esteri della Corea del Sud, è stato designato nuovo segretario generale dell’Onu. Ki-Moon non è solo il dirimpettaio della Corea del Nord. Ha anche fama di possedere moderazione e grande pazienza nel negoziare. Due qualità il cui prezzo è destinato a salire sul mercato mondiale nei prossimi anni.