Opinioni & Commenti

«Corresponsabili del pianeta»: la svolta di Parigi fa ben sperare

Che un bel giorno 195 paesi votino tutti insieme, seppure per acclamazione, un testo sul futuro del pianeta è già di per sé, almeno sul piano simbolico, un fatto storico. Vuol dire che l’umanità non è solo un mito dei filosofi ottimisti, che almeno ogni tanto si fa viva, che si spartisce una volta tanto preoccupazioni e obiettivi comuni, nonostante le guerre, gli sfruttamenti, le diseguaglianze e i tanti trascorsi di egoismo nazionale. Se c’è un qualcosa che fa ben sperare degli impegni presi alla recente conferenza sul clima di Parigi, al di là delle promesse piuttosto generali per non dire generiche, è questa presa di coscienza collettiva di un problema che almeno in quanto tale nessuno ormai più nega o ha il coraggio di negare.

Alla conferenza di Parigi si è superata insomma quella fase della indifferenza verso i problemi e verso gli altri che papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace considera la minaccia maggiore per la convivenza e per la pace nel mondo. Per papa Francesco l’indifferenza è questo non soffermarsi nemmeno di fronte alle vittime della ingiustizia e della violenza come il sacerdote della parabola del buon Samaritano che «vide e passò oltre». Nel messaggio del Papa l’indifferenza è vista addirittura come la rimozione di un fatto e di un problema dalle proprie responsabilità coma fa Caino che dice di non sapere niente di suo fratello Abele.Ora invece a Parigi si è almeno ammesso che il disastro del surriscaldamento del pianeta c’è e interpella tutti. A questo proposito si ricorderà che ancora pochi anni fa gli impegni pur minimali sul clima presi con il famoso protocollo di Tokio furono abbandonati perché nei tre paesi più responsabili di emissione di gas serra nella atmosfera c’erano tre governanti (George Bush negli Stati Uniti, Stephen Harper in Canada e Tony Abbott in Australia) che in pratica negavano il problema e che di fatto pensavano che il surriscaldamento del pianeta fosse un fenomeno ricorrente o comunque non imputabile alle responsabilità umane. Ora finalmente si ammette universalmente che il problema è reale è drammatico, che, come ha detto il presidente Obama, «siamo la prima generazione ad avere provocato il cambiamento climatico, ma forse siamo l’ultima a potere fare qualcosa». Per questo anche il Papa ha riconosciuto che quello che è accaduto a Parigi ci induce a «non perdere la speranza nella capacità dell’uomo con la grazia di Dio di superare il male».

La conferenza di Parigi ci dà insomma speranza, ma non ancora certezze che devono ancora essere cercate e perseguite. Come è noto alla conferenza ci si è impegnati in alcuni obiettivi importanti: limitare il surriscaldamento climatico intorno ad un grado e mezzo, trasferire ogni anno 100 miliardi di dollari ai paesi vittima dei cambiamenti climatici, rivedersi ogni cinque anni per verificare i risultati raggiunti.

Tuttavia la riduzione dell’inquinamento non è quantificata per ciascun paese e gli obiettivi dovrebbero essere raggiunti spontaneamente senza nessun impegno vincolante. Alcune conseguenze della conferenza già si vedono e qualche segno fa pensare che ci si muova in questa direzione anche con la semplice buona volontà dei singoli stati e delle singole aziende. Per esempio nel nostro paese l’Enel, che è stata la bestia nera degli ambientalisti, prevede ora di passare in quattro anni a produrre metà della sua energia elettrica partendo dall’eolico, dall’idraulico e dalla geotermia. Anche EDF, la più grande società di produzione elettrica di Europa, si propone adesso, almeno a parole, di sostituire entro il 2030 gran parte della sua energia prodotta dal carbone e dal nucleare con l’eolico sfruttando la risorsa del vento che soffia sulle coste dell’Atlantico. La particolare forza del vento rende già l’eolico più conveniente del carbone in alcuni, pochi parti del pianeta come il Brasile e buona parte il Sudafrica. Tuttavia è difficile immaginare che paesi come l’India e la Cina, che in sede di conferenza si sono opposti ad ogni controllo sulle loro emissioni anche se il secondo è oggi il paese più inquinante in termini assoluti rinuncino spontaneamente e rapidamente all’uso del carbone.

Allo stesso modo ci vuole ottimismo per credere che i paesi petroliferi come il Kuwait o il Qatar, che sono i maggiori inquinatori in termini di emissione per abitante e che durante la conferenza hanno cercato addirittura di non fare fissare una cifra precisa al riscaldamento climatico, possano ridurre spontaneamente la loro produzione di petrolio. Purtroppo non ci può fidare solo dei buoni anche se lodevoli propositi. Le organizzazioni ambientaliste, che hanno dato un’occhiata a tutti i singoli progetti di lotta all’inquinamento portati da 186 paesi alla conferenza, sostengono che, se ci si limita solo a questi semplici gesti di buona volontà anche se sommati insieme, non si scende sotto i due gradi di riscaldamento globale,ma anzi si toccano i tre.

Salvo miracoli di generosità e di abnegazione bisognerà quindi necessariamente fare seguire degli impegni più precisi e stringenti. Ancora il Papa nella sua enciclica Laudato si’ ci ha ricordato che la salvaguardia dell’ambiente non si limita a chiederci di mettere i doppi vetri alle finestre. Vuole invece e richiede un cambiamento di un intero sistema di sviluppo.

Ora è impossibile eliminare le emissioni più inquinanti costituite dal carbone se non si rende il carbone meno conveniente aumentando il suo costo con quella carbon tax che gli ambientalisti chiedono ormai da tempo e che solo alcuni paesi, a cominciare dai Paesi nordici, hanno finora adottato. A maggior ragione è difficile ridurre dovunque il consumo di petrolio a favore di energie rinnovabili senza penalizzarlo quando il suo prezzo è sceso ad un livello così basso e quando perfino il carbone di scisto che costituisce un enorme spreco di acqua e di aria perché vuole due barili d’acqua per produrre un barile di petrolio e emette il 20% in più di diossido di carbonio, è diventato accettabile in questa pura logica di mercato ed è prodotto regolarmente negli Stati Uniti e nel Canada.

Anche i cento miliardi di dollari che dovrebbero essere dati ogni anno ai paesi vittima dei cambiamenti climatici sembra per il momento che dovrebbero essere il frutto di una colletta in cui le libere offerte finora pervenute sono di gran lunga inferiori alle attese e alle necessità. Non a caso gli americani hanno cercato fino all’ultimo di evitare che nel testo finale della conferenza fosse indicata la somma precisa di 100 miliardi annui da concedere ai paesi danneggiati dai cambiamenti climatici temendo che la maggioranza repubblicana al congresso respinga questo impegno come accadde per gli impegni del protocollo di Kyoto. E rimane finora indefinito quindi anche il grande tema dei sacrifici che ciascuno dovrà fare e della sobrietà che ognuno dovrà darsi se si vuole cambiare davvero il sistema di una crescita che fino ad oggi è stata prodotta con il 90% di energie fossili. E se il fare vero avrà per tutti il suo costo che è stato calcolato sull’1% del reddito mondiale il non fare ha già le sue previsioni ben più catastrofiche di un crollo del 5% del reddito mondiale, della distruzione di fatto dei dieci paesi più poveri chiamati a pagare il prezzo dei cambiamenti climatici, del sollevamento del mare con venti città portuali e quattrocento milioni di persone a rischio di sommersione, di una carenza di acqua dolce per quattro miliardi di persone, del crollo delle rese agricole e dell’avanzata dei deserti senza contare le vittime degli uragani, delle emigrazioni e delle guerre per motivi climatici.