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Delitto di Cogne, oltre il carcere un modo per espiare la pena

di Andrea FagioliUna madre che uccide un figlio è una cosa inimmaginabile, contro tutto e contro tutti: contro la natura, contro l’uomo, contro Dio. Eppure accade, forse è accaduto a Cogne, sempre che gli investigatori e i giudici abbiano visto bene e sempre che la sentenza sia confermata in Appello ed eventualmente in Cassazione.

Non possiamo negare, però, di avere sempre sperato il contrario. E per questo i cristiani migliori avranno anche pregato. In ogni caso, da quel tragico 30 gennaio 2002, tutti volevamo che Annamaria Franzoni non fosse l’assassina del suo piccolo Samuele. E ancora oggi, dopo la condanna a trent’anni pronunciata in primo grado dal Tribunale d’Aosta, resta aperto uno spiraglio.

Ma se la verità è quella uscita dalla sentenza del 19 luglio scorso, allora siamo di fronte ad un caso limite e come tale va trattato. La stessa mamma potrebbe aver rimosso il fatto non potendo ammettere in alcun modo di avere infierito sul figlio di tre anni se non in preda ad un raptus che per alcuni istanti le ha oscurato la mente e il cuore.

Adesso, dopo aver condannato lo sfruttamento ignobile che in più circostanze si è fatto della vicenda, non ci resta che pensare al povero Samuele, alla famiglia di Annamaria, a lei stessa, al marito (che, se innamorato, non può che credere alla moglie più che ai giudici) e soprattutto dobbiamo pensare ai fratellini di Samuele, che meritano un’esistenza serena senza il fardello insostenibile di una mamma assassina rinchiusa dietro le sbarre. Per questo vorremmo che Annamaria, se colpevole, espiasse il male fatto ad un figlio attraverso la moltiplicazione del bene per gli altri due, ma senza bisogno del carcere.

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