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«Don» Vincenzo Savio, il vescovo che non ha perso il sorriso

di Umberto Folena«Non perdere il tuo sorriso». Cinque semplici parole scritte da Margherita, una bambina di otto anni. Eppure si erano fatte strada fino al cuore di don Vincenzo Savio – tutti i preti sono «don», né monsignori né vescovi, quando si presentano davanti al Signore; e così lui preferiva essere pensato dagli amici – fino a costituire, forse, una barriera contro la malattia. Non perdere il tuo sorriso. Non è facile continuare a sorridere quando sai che un cancro ti sta divorando. Quando i dolori ti afferrano le viscere, risalgono lungo la schiena e ti uccidono i pensieri, il buon umore, chiedendo dedizione totale: io sono il dolore tuo, e altro non c’è al di fuori di me.

Don Vincenzo mi parlò di Margherita e del suo modo di affrontare la malattia all’Assemblea dei vescovi ad Assisi, nell’autunno scorso. Mi disse: «Voglio continuare a sorridere, a essere me stesso. La malattia non deve cambiarmi. E non hai idea di quanti episodi comici mi stanno capitando». Comici? «Sì, comici. Tutta questa gente che mi dà consigli, anche i più assurdi, ma sempre per affetto. E quelli che mi portano da mangiare: mai avuti in casa tanti conigli tenerissimi, uova freschissime, e poi fiori, e regali. Che ridere». Che ridere? «Che ridere. Perdo più di trenta chili, ma non tutti evidentemente sanno della malattia. Incontro a Roma una tua collega». Niente nomi, però è una della tv, assai nota. «Mi dice: però, che linea! Come ha fatto? Eh, le donne e le loro diete. Chissà quale segreto avevo, si sarà chiesta. Che cosa dovevo risponderle? Fare la faccia triste, addolorata? No, mi è venuto spontaneo scherzare. Ho un sistema infallibile, le rispondo, ma non glielo consiglio. Si chiama tumorina».

Sorrideva e parlava, don Vincenzo. E intanto stava arrivando dove voleva arrivare: «Mi piacerebbe raccogliere tutti questi episodi in un piccolo libro. Me lo scrivi tu?». Un libro, piccolo finché volete, in cui un ammalato di cancro racconta come si fa a sorridere… Ci salutammo con il proposito di risentirci. Confesso che l’idea mi spaventava. Anzi mi terrorizzava. Poi, dopo Natale, la notizia che le cose a Belluno si mettevano male. Mi ricordai del suo desiderio. Montai in macchina e partii. Passammo insieme quattro giorni, lui a letto, o seduto, a parlare. Io a registrare e prendere appunti. A incontrare preti, medici, amici. A raccogliere documenti, come la preghiera scritta per Margherita, la bambina che «mi ha letto nel più profondo di tutti». Don Vincenzo è riuscito a leggere solo il primo capitolo del libro. Ma già da adesso posso dire a Margherita: sii contenta, il tuo vescovo non ha mai perso il suo sorriso, mai. E molto è stato per merito tuo.

Il vescovo Savio e la Toscana un legame mai interrotto