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Elezioni, è partito il conto alla rovescia

Il conto alla rovescia per le elezioni è finalmente iniziato. Manca un mese al voto del 4 marzo e nei giorni scorsi, con la presentazione delle liste, i partiti hanno completato gli adempimenti necessari per partecipare alla competizione elettorale. Le cronache hanno raccontato minuto per minuto questa fase convulsa, con scontri e polemiche (e qualche strascico in termini di ricorsi) su cui è interessante tornare perché quanto è accaduto ci può dire molto di quanto prevedibilmente avverrà dopo il voto.

In tempi di memoria molto corta, vale la pena ricordare che la composizione delle liste è sempre stata un momento di forti tensioni interne ai partiti, anche all’epoca di quella che si è soliti definire Prima Repubblica. In questa occasione, però, il tasso di conflittualità è stato enfatizzato da due ordini di fattori, il primo relativo alle concrete situazioni delle forze politiche, il secondo relativo al funzionamento del sistema.

Riguardo al primo livello, la contesa nel Pd è stata estremamente dura non solo per motivi politici, ma perché questo partito nell’ultimo Parlamento ha avuto una rappresentanza molto ampia – effetto del risultato elettorale moltiplicato dal premio di maggioranza previsto dalla vecchia legge elettorale – mentre nella prossima legislatura il numero di deputati e senatori sarà molto inferiore anche nel migliore dei casi. Nel Movimento 5 Stelle la polemica interna ha avuto essenzialmente a che fare con la mancanza di trasparenza e il carattere fortemente verticistico dei meccanismi di selezione delle candidature.

Meno clamorose le tensioni all’interno di Liberi e Uguali, ma in questo caso hanno inciso le ridotte dimensioni e il fatto che l’articolazione delle candidature fosse sostanzialmente già parte dell’accordo tra i gruppi che hanno dato vita al nuovo soggetto politico. Nella coalizione elettorale di centro-destra l’aspettativa di una rappresentanza parlamentare più ampia di quella uscente ha prodotto un effetto opposto a quello registrato nel Pd. In questo caso la competizione non ha investito tanto i singoli partiti, quanto i rapporti tra gli stessi, in particolare tra Forza Italia e Lega. E questa sottolineatura porta al secondo ordine di fattori.

Se come è largamente prevedibile dalle urne non uscirà direttamente una maggioranza di governo, gli accordi dovranno essere negoziati all’interno del Parlamento e quindi saranno decisivi i numeri dei singoli gruppi parlamentari e il controllo dei leader sugli stessi. Anche questa non è una novità assoluta, ma in una situazione in cui formare una maggioranza sarà un’impresa ardua che potrebbe giocarsi sul filo di pochi seggi, la composizione delle liste e l’assegnazione dei collegi considerati «sicuri» è diventata una questione capitale.

La prospettiva di una legislatura difficile e di una governabilità precaria fa risaltare un elemento finora non adeguatamente messo in evidenza nelle analisi. Il 4 marzo si voterà anche per eleggere i presidenti di due Regioni-chiave, la Lombardia e il Lazio. A parte la possibile influenza che in quelle aree il voto regionale potrebbe avere su quello politico, colpisce un dato: dal 2013 al 2018, mentre a livello nazionale abbiamo avuto tre presidenti del Consiglio, due leggi elettorali e si è discusso a giorni alterni di voto anticipato, nelle due Regioni i presidenti eletti cinque anni fa hanno completato regolarmente il loro mandato. Merito soprattutto del sistema elettorale e istituzionale. Senza immaginare equazioni semplicistiche, è una materia su cui il prossimo Parlamento dovrebbe compiere una riflessione seria.