Opinioni & Commenti

Fiorentina, quella passione che unisce uomini di Chiesa e «smoccolatori»

di Andrea BellandiPreside della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale

Ebbene sì, lo confesso, anch’io domenica sera sono passato dall’«Artemio Franchi», confuso fra altri trentamila volti di tifosi «da curva» e di famigliole con annesso bambino rivestito di viola, di giovani urlanti e di più compassati cinquantenni, di nonni legati ancora ai mitici nomi di Montuori e «Giulino» – come chiamavano a Firenze l’eclettica ala brasiliana del primo scudetto – e di ragazzine innamorate di Pazzini.

C’ero anch’io, curioso, contento, quasi trascinato dall’entusiasmo di un’intera città che verso quella maglia nutre sentimenti assolutamente indecifrabili al solo metro della fredda analisi sociologica; la Fiorentina – per la quasi totalità dei fiorentini – non è appena la squadra di calcio della propria città, ma è molto di più: una persona «di famiglia», oserei dire. È un legame strano a definirsi, ma profondo: ci sta dentro il campanilismo fiorentino, l’orgoglio di appartenere ad una città il cui nome – nel mondo – tutti conoscono («oh, Florence!»), il sentimento di una storia e di una civiltà le cui vestigia ti avvolgono appena fai due passi in centro, la consapevolezza di un patrimonio di umanità (unito alla tipica, graffiante sì ma al fondo mai cattiva ironia che ci contraddistingue) per certi versi unico.

Firenze è la Fiorentina e la Fiorentina è Firenze – si è potuto leggere in molti giornali in questi giorni – ed è vero. Non si potrebbe spiegare altrimenti la nonna che, affacciata al balcone la domenica pomeriggio, si informa dai passanti sul risultato della «Viola»; non si capirebbe la ragione per cui il maggior quotidiano italiano stampa l’edizione locale del lunedì in quel colore che – canta un coro della curva – «è il più bello che c’軅; non sarebbe neppure pensabile l’improvviso azzerarsi di ogni polemica e divisione – proprio a Firenze – tra «destri» e «sinistri», tra commercianti e consumatori, comitati pro e contro tramvia, aristocratici e sanfredianini, gente di chiesa (preti compresi, e non solo il nostro don Massimiliano, entusiasta cappellano della squadra) e «smoccolatori»…e chi più ne ha più ne metta. Del resto, proprio nella sanguigna città del Giglio ogni colore politico è stato da anni volutamente bandito allo stadio, anche dalla tifoseria più calda.

Ecco perché quando Osvaldo – emulo di quel «Batigol» ancora rimpianto sulle rive dell’Arno – ha inventato quella «improbabile» rovesciata vincente, migliaia di fiorentini (e non solo i cosiddetti «malati» del pallone) incollati al televisore o alla radiolina hanno esultato di una gioia indescrivibile: era tutta Firenze che saliva nell’Olimpo del calcio europeo, era il cuore di una squadra sempre un po’ snobbata dai grandi media che sovvertiva le leggi normalmente imposte dal potere economico, era in fondo – mi si perdoni l’immagine forse un po’ troppo ardua – la novità dell’imprevisto Davide che si prendeva ancora una volta gioco dell’atteso vincente Golìa.

E allora chissà che questo piccolo eppur sorprendente traguardo non aiuti tutta la città a rimettersi in cammino in qualche modo più unita; che – con la scusa di non far rientrare dalle trasferte europee a mattino inoltrato i propri atleti – non ci si accordi finalmente per un aeroporto più funzionale; che per la paura di fare «brutte figure» con i tifosi stranieri non ci si decida a migliorare le nostre infrastrutture (strade, parcheggi, mezzi di trasporto); che per amore della nostra squadra non ci si convinca davvero che è più bello andare allo stadio con i propri amici o la propria famiglia, tifando sì per «la Viola», ma senza per questo voler annientare – anche fisicamente – l’avversario.

In fondo ricordiamoci che è sempre un gioco; anzi, è – come si è scritto – «il gioco più bello del mondo»: a Firenze forse più che da altre parti. E questo, i nostri «campioni» in maglia viola – Prandelli in testa – domenica scorsa tornando da Torino lo hanno sicuramente compreso.