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Fisc: Gasparri non convince, ma la legge dà qualche speranza

di Claudio TurriniQuello che non riesce a fare la politica lo potrà fare la tecnologia? È la segreta speranza che emerge da Teramo, dove la Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici) ha festeggiato i cento anni dell’«Araldo abruzzese» con un convegno su «I media di ispirazione cristiana nello scenario della legge Gasparri» (18-20 marzo). Ed è stato proprio l’incontro con il ministro delle comunicazioni il «piatto forte» del convegno, sabato 20 marzo nella cittadina di Atri. Costretto ad incassare le critiche e le punzecchiature di Roberto Natale, segretario dell’Usigrai (il sindacato dei giornalisti Rai), don Giusto Truglia, direttore di «Telenova» e di Francesco Zanotti, vicepresidente della Fisc, Gasparri si è difeso attaccando i governi precedenti che ci hanno consegnato questa situazione di duopolio e rivendicando per sé il merito di aver «stoppato» la privatizzazione dei ponti radio della Rai (voluta da Zaccaria) e di aver introdotto una più ferma tutela dei minori in tv, che prevede finalmente anche delle sanzioni. Ma sulla legge che porta il suo nome e che proprio in questi giorni ripreso l’iter parlamentare dopo il «rinvio» alle Camere decretato dal presidente Ciampi, non ha convinto. A chi gli chiedeva di quantificare il Sic (sistema integrato delle comunicazioni) ha risposto che non spetta al ministro fare delle stime, quanto piuttosto all’Autority sulle comunicazioni. Ma come ha fatto allora a stabilire che il tetto del 20% delle risorse in mano ad un operatore è quello giusto? Secondo stime del «Sole24ore» la torta sarebbe di 32 miliardi di euro, il cui 20% ammonterebbe a 6,4 miliardi, una bella cifra. Gasparri ha replicato che in un mercato globale non bisogna costringere al nanismo le nostre imprese, che devono competere con i Murdoch o con i Disney. Preoccupazione giusta, ma perché le nostre imprese non riescono a crescere all’estero? Forse perché lì ci sono regole da rispettare? Anche sulle garanzie di pluralismo è stato evasivo, limitandosi a notare che prima, quando c’era un solo canale Rai, di pluralismo ce n’era meno e che col digitale terrestre l’offerta si allarga. Sotto traccia a tutto il suo ragionamento la constatazione che il suo ministero è stato chiamato a risolvere un problema che già esisteva, sul quale tanti hanno responsabilità, tranne lui. E su questo qualche ragione ce l’ha, come era emerso anche dai lavori del venerdì, sia nella relazione di Paolo Scandaletti su «dove vanno i media?», che aveva avuto il merito di scuotere le acque con diverse «provocazioni», che nella lettura critica della legge Gasparri, affidata a Marco Rossignoli, coordinatore dell’Aeranti-Corallo e a Luigi Bardelli, presidente del Corallo (associazione che raggruppa 225 radio, 50 televisioni, 3 canali satellitari e un’agenzia di informazione di ispirazione cristiana).

Se oggi ci troviamo di fronte ad un duopolio Rai-Mediaset che ingessa il sistema e drena risorse a tutti gli altri media c’è un perché, come ha ricordato Bardelli, che con la sua TvLibera Pistoia è stato un precursore delle tv private. Tutto cominciò quando un ministro democristiano, Remo Gaspari, pronunciò per la prima volta la parola «concorrenza». La Rai cambiò pelle. Smise di essere concepita come un «servizio» per iniziare a competere con la tv commerciale, nata espressamente per il business. Nessuna forza politica ha mai avuto una visione diversa del problema. Si è sempre cercato un altro Berlusconi sul quale puntare, che si chiamasse Tanzi o Cecchi Gori o Tronchetti Provera poco importa. Oggi è tardi per intervenire. La politica non ha la forza sufficiente per districare il nodo gordiano degli interessi. Lo ha dimostrato il governo dell’Ulivo, incapace di vere riforme. E cosa ci possiamo aspettare da una maggioranza guidata dal proprietario della maggiore concentrazione editoriale? La speranza, secondo Bardelli, viene dalla tecnologia.

Il digitale scompaginerà le carte, permetterà alle piccole emittenti di crescere e di offrire nuovi servizi. Cambierà anche il modo di fruire della tv, perché quando potrò scegliere il programma tramite un menù interattivo si ridimensioneranno le rendite di posizione (come l’abitudine a guardare certi canali). La legge Gasparri non aveva questo fine, voleva solo salvare Rete4 dal finire sul satellite, come aveva sentenziato la Consulta. Ma nelle pieghe di questa legge e della materia che regolamenta (il digitale, appunto) c’è spazio per un po’ di speranza.