Opinioni & Commenti

Globalizzazione, i diritti umani al primo posto

DI ROMANELLO CANTINIDi fronte ad un fenomeno così epocale e incalzante come quello della globalizzazione non ci si può limitare a tentennare la testa in una direzione o in un’altra per dire semplicemente sì o no. Benedire o maledire l’ineluttabile significa di fatto lasciarlo andare avanti nel modo peggiore senza correzioni doverose e senza una guida che lo governi, fra il salotto dei senza rimorsi e la piazza dei senza progetti possibili e spendibili. Proprio di fronte ad un problema di queste dimensioni è necessario unire la sensibilità della posta in gioco alla responsabilità di chi deve dare risposte oltre che limitarsi a tirare sassi al treno che arriva. Porsi concretamente e responsabilmente di fronte alla globalizzazione significa avvertire non solo la sua drammaticità, ma anche tutta la sua complessità che spesso spariglia gli stessi schieramenti troppo tagliati con l’accetta. Mentre molti dicono no categoricamente alla globalizzazione in nome degli emarginati, i paesi del Terzo Mondo sgomitano per entrare nella Organizzazione mondiale del commercio. Mentre da una parte si chiede rispetto degli standard minimi nel mondo del lavoro e nell’ambiente i paesi emergenti vedono in queste richieste una sorta di protezionismo camuffato dei paesi ricchi nei loro confronti. Mentre da un lato si chiede la protezione dei «cibi sani» prodotti dall’Europa i paesi degli altri continenti chiedono la demolizione del nostro protezionismo agricolo.Ha scritto il Papa nella «Centesimus annus»: «In anni non lontani è stato sostenuto che lo sviluppo dipendesse dall’isolamento dei paesi più poveri del mercato mondiale (…). L’esperienza recente ha dimostrato che i paesi che si sono esclusi hanno conosciuto stagnazione e regresso, mentre hanno conosciuto lo sviluppo i paesi che sono riusciti ad entrare nella generale interconnessione delle attività economiche a livello internazionale».

Ma aggiunge ancora il Papa nella stessa enciclica: «Prima ancora dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia che le sono proprie esiste un qualcosa che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità».

Insomma i «diritti umani» sono prioritari anche rispetto alla logica della globalizzazione fra l’altro in sé così ambigua da avere qualche successo in Asia e in America Latina, ma da fallire quasi ovunque in Africa.

I diritti umani riguardano in primo luogo il cibo e a questo proposito bisogna domandarsi se il contadino africano che lavora un ettaro di terra sia in grado di competere con l’agricoltore americano che lavora 5000 ettari (l’India e la Corea del Sud citate spesso ad esempio del successo della globalizzazione mantengono un alto protezionismo agricolo).I diritti umani riguardano la salute per cui la logica del mercato e dei brevetti farmaceutici non può prevalere di fronte alla drammaticità della epidemia di Aids in Africa e al persistere nel Terzo Mondo di malattie mortali da noi ormai debellate o scomparse.

I diritti umani riguardano l’istruzione come mezzo efficace fra l’altro per avere risorse umane in grado di partecipare alla globalizzazione, come contributo alla diminuzione della piaga del lavoro minorile, perfino come riflesso verso una procreazione responsabile.

I diritti umani riguardano la pace (fra i dieci paesi che più sono arretrati nella lotta contro la fame negli ultimi dieci anni ce ne sono molti come il Congo, il Burundi, la Tanzania, la Somalia, l’Irak che soffrono della guerra o delle sue conseguenze).

La Chiesa «esperta in umanità», come ci ricorda il Concilio Vaticano II, ha la sua specificità nel ricordare che l’eticità del mercato è tale solo se la sua ricchezza prodotta è distribuita e messa al servizio dell’uomo.In questo senso va rivisitata la proposta della «Populorum progressio» per una regolamentazione del corso delle materie prime (tutte le volte che prendo un caffè al bar non posso dimenticare che del prezzo del chilo di caffè che il barista ha usato solo un decimo va ai paesi produttori come il Brasile o il Vietnam). Va alleggerito il debito dei paesi poveri in cambio di progetti di sviluppo e senza danneggiare la loro credibilità finanziaria per il futuro. Va infine ripresa la politica degli aiuti da parte dei paesi ricchi che sono crollati negli ultimi dieci anni a percentuali vergognose che rappresentano ormai non qualche centesimo, ma due o tre millesimi del loro reddito nazionale.

I poveri non possono aspettare! Appello in vista del G8 (25 giugno 2002)