Opinioni & Commenti

I suicidi in carcere e la promessa che la vita può tornare alla vita

di Giuseppe Anzani

Nelle carceri italiane non c’è il «braccio della morte», perché in Italia la pena di morte non c’è. Però nelle carceri italiane si continua a morire, e a darsi la morte sono i detenuti.

Un numero impressionante, ogni anno; uno degli ultimi, un ragazzo di 35 anni, si è ucciso la settimana scorsa nel carcere di Sollicciano a Firenze, con il gas della bombola. Dopo di lui si sono uccisi altri in altre carceri italiane. Il conto dell’anno è salito a 65 suicidi. E se nulla cambia, nessuno ci rassicura che sia finito, dentro questa disperante angoscia che non ha tregua. Vorremmo allora sapere il perché, vorremmo capire, vorremmo chiedere se si può fare qualcosa, in luogo del solo piangere o del solo indignarsi.

Il carcere è luogo di pena, e sia; ma chi può ritenere giusto che la pena trabocchi fino a far preferire la morte al dolore di vivere così? Forse non è solo questione di leggi, di ordinamento, di organizzazione. Hanno escogitato da ultimo, di fronte a un affollamento insostenibile (68mila, per una capienza di 44mila) di far scontare l’ultimo anno di detenzione a casa, a certe condizioni e con certe esclusioni. Il calcolo è che ne sfolleranno 7mila, a farsi la reclusione domiciliare. Fate il conto, per i 61mila che restano dentro l’ammasso incatenato, non cambia il dolore; e per i più fragili o disperati, il pensiero della morte. Forse viene il momento di capire che il guasto del castigo, fatto così, si somma al guasto del delitto; e non lo rimedia, non lo sconfigge. Ci vorrebbe un miracolo, e sarebbe un sogno, d’aver colto un giorno sul cammino penitenziale il frutto che la Costituzione chiama «emenda», incanalando totalmente lì il senso della pena, altrimenti insensata; e che il cuore umano chiamerebbe «salvezza» invocandola su piste diverse dalle vendette rituali. Salvezza, questa è la parola, insieme trepida e tremenda, che estrae ancora qualche tizzone di speranza dai nostri turbamenti estenuati. Non ci basterà più parlare del «problema» carcerario (la devianza, la sicurezza, la separazione, la condizione torturante dell’ammasso dei corpi, la psiche aggredita, il tempo destrutturato) senza rammentare che l’uomo non è riducibile a catalogo di problemi; l’uomo vivente è la concretezza della vita, il suo pensiero, la sua speranza, il suo bisogno di senso, la sua attesa di essere in salvo. Toglietegli questo e lo avrete già cadavere prima che un giorno si impicchi alla sbarra col lenzuolo. Pena è conversione, e non lavoro di boia. Ci vuole forse più osmosi fra carcere e società, se la penitenza non li vuole morti, ma cambiati, rifatti, ripresi. La salvezza, ecco la parola.

A Natale, da cristiani, ci pare di capire un poco di più perché Lui è venuto, dentro quel nostro orizzonte umano in cui ci incarcerano ingiustizie e rimorsi. A dirci che il male può essere sconfitto, che la morte non è l’ultima parola, che sopra le cupe bandiere della violenza e dell’odio, del cui veleno forse ancora residuano stille dentro i disperanti castighi, c’è la promessa (non il sogno, la promessa vera) che la vita può tornare alla vita, riprender gusto d’innocenza, ricominciare ad amare.

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