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Il Natale dei consumi, la peggiore offesa alla povertà

Non è sempre stato così. Anzì è da poco che è così. Perfino Babbo Natale non è così vecchio come farebbe pensare la sua barba di cotone idrofilo. Fino a sessanta anni fa qui in Toscana, ad esempio, i regali di Natale li portava «il ciuchino» che la mattina di Natale riusciva, non si sa come, a lasciare nella cappa del camino, parallelo al paiolo, un sacchetto con dentro quattro arance, due manciate di castagne secche, qualche cavalluccio e un panforte. Il commercio allora era quello e la globalizzazione, quando andava lontano, non andava più in là di Siena. Del resto da sempre l’agiografia e l’iconografia hanno descritto il Natale come una festa della povertà. Il Bambinello aveva scelto la povertà appena aveva visto la luce. Si era disteso sul fieno anziché sulle piume di oca ed era stato riscaldato dal respiro del bue e dell’asinello anziché dal termosifone. A lui «mancano i panni e il fuoco» aveva spiegato Alfonso de’ Liguori e anche se quel bue e quell’asinello forse erano apocrifi servivano benissimo nella mentalità popolare a far condividere a Gesù neonato la sorte dei contadini (in pratica allora dell’umanità) che andavano nella stalla a farsi riscaldare dai loro buoi.

Oggi invece sembra che il Natale sia solo un corso per cucinare il pranzo nel modo più originale, una corsa per imparare a memoria gli outlet e i centri commerciali, forse una rincorsa per prendere il volo per Sharm. L’economia moderna non riesce a concepire la festa se non come occasione permanente di produzione e di consumo. Della solennità di un giorno ha voluto fare spesso una attività produttiva permanente. Quaranta anni fa Motta e Alemagna fallirono e furono salvate dall’Iri perché vollero estendere la produzione di Natale a tutto l’anno. In questi giorni la norvegese Lego, la più grande industria mondiale di giocattoli, sta già producendo quelli che saranno i regali del Natale 2013. E quando le feste canoniche non bastano per svuotare i magazzini si inventano le feste «laiche» ad hoc: la festa dei fidanzati, la festa della mamma, la festa del babbo…. Sono solennità senza avviso di campane, senza liturgia in chiesa, senza sagra in piazza: le feste inventate dall’industria richiedono una sola devozione: fare il regalo.

Ma, forse al di là di un certo limite anche Babbo Natale non è sempre così benefico. In Francia già ad otto anni i bambini ormai chiedono che la slitta con le renne porti loro un personal computer. Da tempo gli psicologi hanno avvertito che cercare di conquistare i propri figli con i regali più costosi significa mettere loro in testa fin da piccoli che tanto più si vale quanto più si ottiene. Che insomma l’avere è l’essere, che anche da grandi tanto più saremo uomini quanto più saremo ricchi. Da questo punto di vista il Natale dei consumi diventa di fatto la peggiore offesa alla povertà vera che rimane. Con lo scialo generale facciamo sentire ancora più diverso, più lontano ed emarginato dal resto del mondo chi è povero. Chi non ha quasi nulla da comprare, chi è solo ed apparecchia per uno, chi è abbandonato e sa che il suo campanello non suonerà, proprio a Natale può uscire dalla tristezza per entrare nella disperazione. Sono loro che oggi hanno bisogno di regali. Come e più dei bambini.