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Il piccolo Aylan non è arrivato a Kos

Per andare in Germania da Kobane bisognava raggiungere la Grecia, non c’era altro modo. Dunque, passare dalla Turchia e da qui, dalla spiaggia di Bodrum raggiungere l’isola greca di Kos e poi proseguire.

Ma Aylan, con i suoi tre anni, è rimasto senza vita sulla sabbia di Bodrum, con la sua maglietta amaranto, i suoi calzoncini di jeans, le sue scarpette di tela. Riverso e immobile, carezzato dal mare. Finché, per caso, non è passata da lì Nilufer Demir, una fotoreporter della Dogan News Agency, che ne ha fissato l’immagine. Quell’immagine ha fatto rapidamente il giro del mondo, in tempo reale, come si dice oggi. È già un’icona della storia quella foto del piccolo Aylan.

E le icone, non possiamo negarlo, sono state importanti nella storia dell’umanità; certamente per la cristianità d’oriente e d’occidente. Sappiamo anche che la foto di Jeff Weilin  del giovane Wang in piazza Tienammen a Pechino davanti al carro armato (1989) non fu sufficiente a fermare la repressione del suo paese; sappiamo che la foto del miliziano di Capa non fermò la guerra di Spagna, né la Migrant Mother (la Madre migrante, per l’appunto) di Dorothea Lange (1936) cambiò il corso della storia americana. Né, al momento, sappiamo se questa immagine del piccolo Aylan cambierà del tutto i cuori e la cooperazione dell’Unione Europea.

Certo è che la «cronaca di un dolore» così profondo non può non superare ogni muro e ogni reticolato, quali maldestri tentativi di erigere barriere sociali. Ancora una volta, i muri che separano gli uomini non arrivano fino al cielo.