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Il presepe non è da bandire, né da agitare: è uno spazio di contemplazione

Lo si comprende bene leggendo le Fonti Francescane, laddove Tomaso da Celano, biografo del Poverello d’Assisi, racconta «l’invenzione» del presepe (il racconto lo si reperisce facilmente anche su internet). Quando la notte del 24 dicembre 1223 Francesco d’Assisi volle rappresentare a Greccio la nascita del Signore non lo fece perché voleva introdurre una italica tradizione, ma perché era innamorato di Dio e voleva vedere «con gli occhi della carne» i disagi che il Bambino di Betlemme patì nel venire al mondo e come fu adagiato nella mangiatoia, su un po’ di paglia. Poi nella grotta fece realizzare un altare e vi fu celebrata la Messa. Questo è il presepio! Non un segno da bandire, né un grimaldello da agitare contro gli altri, ma uno spazio di contemplazione dell’Amore non amato, sempre per dirla con san Francesco.

Le Fonti narrano che quando Francesco pronunciava «bambino di Betlemme» quasi belava di tenerezza e si passava la lingua sulle labbra per assaporare quel nome. Tutt’altra cosa dalle stupide polemiche di chi vuol vietare e dalla tracotante prepotenza di chi vuol imporre. C’è solo da contemplare in silenzio quell’Amore, che si manifesta in tutta la sua fragilità e bellezza.

Ben venga, allora, anche la tradizione, ma attenti a ridurre il presepe a questo. È, invece, un segno per ricordare (cioè riportare al cuore) l’infinita misericordia di Dio. Francesco aveva così chiaro in sé questo desiderio di immedesimarsi nell’amato, che nove mesi dopo il presepe di Greccio, il 17 settembre 1224, sul monte de La Verna ricevette «l’ultimo sigillo» di quell’Amore non amato: le stimmate di Cristo sul suo corpo, perché, contemplando l’amore desiderava sentire su di sé i patimenti che Gesù soffrì «per amore dell’amore mio». Incarnazione e passione: due sguardi d’amore di Dio su ciascuno. Molto più di una «bella tradizione».