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India-Pakistan, un copione appena visto

DI ROMANELLO CANTINIChiuso il capitolo Afghanistan si apre forse una nuova guerra proprio con la pagina accanto del Pakistan e dell’India? C’è una sorta di complesso di imitazione e di ripetizione di un copione appena visto. Terroristi di origine pakistana assaltano il parlamento indiano. Il governo di Nuova Dheli chiede al Pakistan di punire i terroristi così come gli Stati Uniti hanno fatto con l’Afghanistan all’indomani dell’attentato alle Torri gemelle. L’India si traveste da America, il Pakistan si trova a recitare la parte dell’Afghanistan. È come se l’11 settembre avesse inaugurato un nuovo diritto e una nuova prassi nei rapporti internazionali per cui degli atti di terrorismo sono responsabili i governi e i paesi da cui i terroristi provengono. La stessa logica, del resto, sembra prevalere fra Israele e l’Autorità palestinese.

Il Pakistan, a differenza dell’Afghanistan di ieri, cerca di fare quel che può nell’arrestare un certo numero di terroristi, ma il conflitto fra India e Pakistan è più di ieri che di oggi, più sostanziale che occasionale, come una sorta di peccato originale che ha macchiato la nascita di entrambi questi due grandi paesi e che ancora oggi avvelena la memoria di oltre un miliardo di uomini da una parte e dall’altra.

A metà dell’agosto del 1947, quando una versione edulcorata degli avvenimenti celebrava l’indipendenza dell’India e del Pakistan e il presunto trionfo della non violenza di Gandhi, dieci milioni di indù fuggivano dal Pakistan e quasi altrettanti musulmani scappavano dall’India. Milioni di essi giunsero a destinazione massacrati sui vagoni ferroviari durante un esodo sanguinoso, rabbioso e disperato da una parte e dall’altra. Da allora due stati nati sull’unica ragione di una inconciliabilità religiosa da una parte e dall’altra non hanno fatto altro che approfondire quel solco maligno che li ha divisi all’origine e che ha fatto dimenticare le più nobili motivazioni che presiedettero all’indipendenza del subcontinente indiano.

In India il nome di Gandhi è stato assassinato tre volte, prima con la morte violenta del suo fondatore e poi in quella di Indira Gandhi e del suo figlio Rajiv Gandhi. Il partito del Congresso, a suo modo liberale e moderno, responsabile della creazione di quella che è stata chiamata «la più grande democrazia del mondo» è praticamente scomparso dalla scena indiana, sostituito da quel partito nazionalista indù che appena vent’anni fa aveva solo due seggi in parlamento e che oggi governa questo immenso paese.

Nel Pakistan, non contenti di aver creato un paese fatto di soli musulmani («il paese dei paesi») fin dal tempo del generale Zia, venticinque anni fa, si è voluta imporre la legge coranica come norma superiore alla Costituzione. Il Kashmir, che al momento dell’indipendenza era a maggioranza musulmana e che rimase all’India perché governato da un principe indu, costituisce oggi l’irredentismo di un mondo islamico che non ammette che una popolazione musulmana possa rimanere anche politicamente fuori della «umma», la comunità dei credenti.

Il conflitto latente fra India e Pakistan, sfociato già in tre guerre seppure di breve durata, è insomma un conflitto fra due fondamentalismi religiosi sempre più ripiegati sul passato e sempre più chiusi al futuro. Da una parte riaffiora la nostalgia dell’impero musulmano del gran Moghul, dall’altra quell’odio contro «l’imperialismo arabo» che trova ospitalità perfino nelle pagine di un grande scrittore indiano come il nobel V. S. Naipaul.

Ognuna delle due parti in causa è stata capace di superare il confine che porta all’armamento atomico, ma non di fare un passo che, qui come altrove, poteva portare in direzione della purificazione della memoria, della cancellazione del passato, dell’apertura di un dialogo fra culture e fedi che pure sono vissute a fianco fino a poco più di cinquant’anni or sono.