Opinioni & Commenti

Informazione e politica: spot e slogan al posto delle idee

di Umberto FolenaSarà stata anche soporifera, dal sentor di camomilla più che di caffè. Tesa a sopire e tranquillizzare, più che a istigare e aizzare. A tacere i dubbi, più che a sollevarli. Eppure questa tv, la tv dei nostri giorni, riesce perfino a farci rimpiangere quella tv, la tv dei giorni che furono, del Canale Nazionale e del bianco e nero, in cui tutti i vestiti apparivano grigi, adeguandosi ai toni e, a volte, pure ai pensieri.

Se quella tv tendeva al grigio, la nostra tende alla marmellata. A un’unica modalità comunicativa: lo spot. Uno spot ben girato è piacevole; cinquanta spot di fila danno la nausea. Lo spot è velocissimo e gridato. Le frasi sono poco più che singulti. Le sfumature inesistenti. Che cosa accade quando anche l’informazione politica decide che, per rendersi accettabile, commestibile e capace di grandi ascolti, tende allo spot?

Succede quel che sta succedendo oggi. Fine del dibattito, della riflessione, del confronto. E via alle svendite, al politico da piazzare come un formaggino, sulla base non dell’analisi chimica degli ingredienti, ma dell’emozione procurata. Poiché il «prodotto politico» in sé appare debolino, gli si aggiunge l’additivo: una Parietti, un Crepet, una subrettina bollita, un comico spento ma deciso a infliggerci il librino delle sue battute, pubblicato dal grande editore che, non a caso, ce lo farà ritrovare al supermercato accanto agli snack. E, poiché è debolino, una raccomandazione: urlare, anzi sbraitare, procedendo per affermazioni apodittiche, per invettive, per slogan ripetuti. A vincere e convincere, nella neo-tv marmellatosa, non è la forza delle idee profonde, ma la reiterazione ossessiva di un’unica idea elementare; che così diventa claim (slogan); che così entra nell’esile memoria dell’elettore-consumatore associata al prodotto-politico; e al momento opportuno si traduce in voto e preferenza sul bancone, pardon: nel seggio elettorale.

La sintesi – dello spot, dell’informazione – esige i suoi sacrifici. Anche umani. Forse non sapremo mai com’è andata veramente la vicenda di Giuseppina Longo, vedova del carabiniere Bruno, intervistata da due precari del Tg3, consapevoli che dal clamore di quell’intervista sarebbe dipesa buona parte della loro carriera. La signora potrebbe aver detto una parola di troppo ed essere stata convinta a «pentirsi»; i giornalisti potrebbero aver usato le forbici con perizia chirurgica e cinica; oppure entrambe le cose. Intanto, prima ancora di raccogliere i documenti per poter esprimere un giudizio, tutti han cercato di manipolare la possibile manipolazione, alla ricerca non della verità, ma della convenienza di bottega. Squallido.

Nei giorni scorsi su Raisat Premium, a notte fonda, Oreste De Fornari commentava con l’onorevole Tabacci alcuni brani di tribune elettorali dei primi anni Sessanta. Un giornalista attaccava con veemenza il comunista Pajetta – un autentico mastino – chiedendogli conto del maltrattamento dei lavoratori nell’Urss. Pajetta replicava con altrettanta veemenza. Un giornalista dava e toglieva la parola. Nessuno interrompeva l’altro, nessuno gridava, nessuno insultava. Eppure tutto era chiaro e comprensibile. E godibile. Che ci fossero più toni di grigio nella tv del Canale Nazionale, che colori nella tv all’alba del digitale?

La tv senza Dio. La denuncia di Bernabei