Opinioni & Commenti

Iran, obbligati al dialogo

di Romanello Cantini

L’Iran ha rilasciato cinque dei nove dipendenti dell’ambasciata inglese arrestati. Per quanto la crisi diplomatica fra Londra e Teheran non sia ancora risolta appare chiaro che il bis della cattura dei dipendenti dell’ambasciata americana di trenta anni fa, il mito fondante della repubblica islamica, quella che Khomeini definì la Seconda Rivoluzione, non ci sarà.

Nonostante le ritorsioni e le controritorsioni di rito in questi casi, sia da parte inglese che da parte iraniana si sottolinea già che non si vuole una rottura dei rapporti diplomatici. Del resto, nonostante la grande eco del postelezioni iraniano, la reazione internazionale è stata finora piuttosto prudente se non indifferente. Tre giorni dopo le elezioni Russia e Cina si erano già complimentate con Ahmadinejad per la splendida vittoria riportata.

Ed anche nel mondo occidentale solo Sarkozy si è sbilanciato fino a denunciare una frode elettorale. Ma per il resto si è preferito  condannare le violenze sugli oppositori senza compromettersi sui brogli elettorali. Questa cautela non deriva solo dalla difficoltà di sapere cosa veramente gli iraniani abbiano messo nelle urne venti giorni fa. Ma dalla consapevolezza ben più rilevante politicamente per cui ogni delegittimazione del vincitore ufficiale delle elezioni avrebbe di fatto delegittimato anche ogni dialogo con l’Iran perché sarebbe equivalso ad ammettere che si andava a trattare non con un rappresentante, ma con un usurpatore.

Soprattutto il neopresidente americano è stato preso in contropiede da questo rischio di non sapere con chi dialogare una settimana dopo che aveva inaugurato ufficialmente l’era del dialogo con l’Iran.

Nel suo discorso del Cairo del 4 giugno scorso Obama aveva chiesto scusa per il rovesciamento di Mossadeq nel 1953 e aveva promesso la fine del trentennale tentativo americano di rovesciare l’attuale regime iraniano. In sostanza il neo presidente prometteva riconoscimento in cambio del dialogo. Ed anche dopo la contestazione postelettorale il nuovo inquilino della Casa Bianca ha cercato di mantenere un certo distacco dalle contese di Teheran dichiarando che in fondo Moussavi non era poi tanto diverso da  Ahmadinejad. Questa dichiarazione apparsa ai più stravagante voleva dire in sostanza che a Teheran non avrebbe comandato in ogni caso  nessuno dei due personaggi che si strappavano di bocca la vittoria  perché avrebbe continuato a comandare come sempre la Guida Suprema Ali Khamenei. Detto ancora più chiaramente in Iran per ottenere un reale cambiamento sarebbe stato necessario non un altro presidente, ma un altro regime, non una nuova elezione, ma una nuova rivoluzione. Che era quello che i predecessori di Obama alla Casa Bianca avevano cercato per trent’anni con la loro chiusura verso Teheran e la loro condanna della Repubblica islamica.

In sostanza anche nel mondo occidentale, nonostante lo sdegno per le violenze e l’incognita di un regime che si sta radicalizzando, prevale il realismo di chi pensa che ancora da Teheran si possa ottenere almeno il meno peggio se non il meglio.

Questa è fra l’altro la posizione emersa anche dal G 8 di Trieste. Con l’Iran ci sono interessi opposti, ma anche interessi convergenti. In  Afganistan l’Iran ha interesse che siano sconfitti Al Qaida e i talebani per i quali la religione sciita non è altro che un’eresia da estirpare. In Iraq l’Iran vuole che si consolidi l’attuale supremazia degli sciiti al potere e non vuole una balcanizzazione del paese fra sciiti, sunniti e curdi che costituirebbe un pessimo esempio anche per le sue minoranze interne.

Certamente in entrambi questi paesi ai suoi confini l’Iran non vuole né un governo troppo filoamericano, né un governo troppo forte. Ma tra il caos e il compromesso c’è sempre uno spazio. A loro volta è interesse degli occidentali ottenere un minimo di moderazione in Palestina dal movimento Hamas filoiraniano perché, senza un pregiudiziale accordo di unità nazionale fra i palestinesi, non è possibile nessun accordo di pace e nemmeno nessuno stato palestinese anche ammesso che alla fine gli israeliani lo concedano.

Anche per il dossier più drammaticamente scottante dell’energia atomica rompere ogni dialogo significa oggi fra l’altro interrompere ogni ispezione Onu nel paese e dare all’Iran la possibilità di correre  diritti senza più alcuno ostacolo o intralcio verso un arma atomica  qualora realmente lo voglia.

Certamente questa prosecuzione del dialogo non ha fra le sue priorità quello di far cadere il regime degli ayatollah. Ma come sembra pensare il presidente Obama nemmeno la strategia della delegittimazione in trenta anni è riuscita a raggiungere questo risultato che pure era in cima  ai suoi pensieri. E per i problemi drammatici che oggi sono sul tappeto nessuno può permettersi il lusso di aspettare altri trenta anni.