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Israele, i due «patriarchi»

di Romanello Cantini In Israele in meno di un mese è stato sconvolto un panorama politico vecchio di mezzo secolo. All’interno del partito laburista un “mostro sacro” come Simon Peres, in pista da trent’anni, tre volte primo ministro, quasi sempre ministro, premio Nobel per la pace nel 1994, è stato messo in minoranza da Amir Peretz, un sindacalista quasi sconosciuto. Il detronizzatore di Peres ha chiesto, senza aspettare un giorno, l’uscita dei ministri laburisti dal governo Sharon ed ha ottenuto come inevitabile conseguenza la fissazione delle elezioni anticipate per il prossimo marzo.

Di fronte ad una scadenza elettorale così ravvicinata anche Sharon ha deciso di rompere con il suo partito di sempre, il Likud, che nell’ultimo anno, dal momento della decisione dello sgombero delle Colonie di Gaza, è stato più una zavorra che un motore per la sua politica ed ha scelto di fondare un partito tutto suo. Alla nuova formazione politica ha portato il suo sostegno anche Peres, offeso per l’affronto di lesa maestà subito in casa propria. Così il tradizionale bipartitismo israeliano si sbriciola in multipartitismo.

I partiti si spaccano e si delegittimano nella crisi, lasciando protagonisti soprattutto gli uomini. Gli amici di ieri si lasciano e i nemici di un tempo si incontrano. Come forzato da un bisogno di verità e di autenticità, che mette in crisi le abituali appartenenze, il sistema politico si ristruttura intorno a poche scelte immediate e vitali. Anche il nome del nuovo partito di Sharon (“Kadima” – “speranza”, ndr) non è più né un’ideologia né un programma. È un sentimento secco, ma diffuso, al massimo una virtù teologale per un mondo che sta morendo e un altro che deve nascere.Finora i sondaggi attribuiscono trenta seggi a Sharon, venti al partito laburista di Peretz, dieci al Likud di Netanyau.

E, tuttavia, bisognerà vedere se, nei prossimi mesi, una volta smaltito l’effetto “novità iniziale”, Sharon riuscirà a mantenere questo distacco con gli inseguitori. Sarà importante anche verificare se Peretz riuscirà a conquistare con il suo programma sociale, che già prevede un aumento del salario minimo, quegli ebrei safarditi (cioè provenienti dall’Africa del Nord) che sono i più poveri, ma anche i più accesamente antiarabi.

Il Paese, per il momento, sembra affidarsi a questa nuova età di due “patriarchi” – l’ottantaduenne Peres e il quasi coetaneo Sharon – che hanno vissuto tutta intera la storia di Israele e che – sembra – non vogliano morire prima di cambiarla.

Mauriac diceva che la destra serve, talvolta, a realizzare le idee impopolari della sinistra e viceversa. Da questo punto di vista, il duro Sharon può dare garanzie anche a molti recalcitranti sulla via della pace.

C’è, d’altronde, chi crede che, nella storia di Israele, vi è una sorta di eterno contrappasso per cui i generali, da Dayan a Rabin, da Barak a Sharon, sono condannati ad occuparsi di guerra da giovani e di pace da vecchi.

La coppia Sharon-Peres ha davanti a sé, in teoria, queste possibilità. Ma, intanto, non si può dimenticare che questo dicembre rappresentava l’ultima scadenza entro cui doveva nascere lo Stato palestinese secondo la “Road map”; che intorno a Gerusalemme si sta estendendo una colonizzazione che impedirà di fatto ogni discussione sul futuro della città; che, nelle prossime elezioni palestinesi, si rischia il trionfo dell’estremismo senza risultati concreti nel processo di pace.

Da questo punto di vista, la proposta di Peretz di aprire immediati negoziati con i palestinesi potrebbe essere, oltre che un suggerimento, anche un progetto di “alleanza a condizione” con Sharon per il futuro governo.