Opinioni & Commenti

Israeliani e palestinesi, mai così lontani e al gelo degli Usa

di Romanello Cantini

Poco più di un mese fa nel suo discorso all’Università di Tel Aviv, Benyamin Netanyahu, per la prima volta nella sua carriera politica ha avanzato l’ipotesi della creazione di uno Stato palestinese accanto a quello dello Stato israeliano. Lo ha fatto mantenendo le tradizionali pregiudiziali della destra israeliana a cominciare dalla indivisibilità di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e aggiungendo che il nuovo Stato palestinese dovrà non solo riconoscere Israele, ma anche essere senza esercito e senza missili, senza potere sul suo spazio aereo, senza alleanze con Hezbollah e con l’Iran e senza la presenza organizzata di Hamas a Gaza. Di fronte a queste condizioni da parte palestinese si è risposto che Netanyahu non proponeva uno Stato palestinese, ma un protettorato israeliano. Comunque sia, al di là delle polemiche più o meno giustificate, rimane il fatto che governo israeliano e Autorità palestinese non erano mai stati, da quindici anni, fra loro così lontani come lo sono oggi. In quattro mesi, Netanyahu e Abu Mazen non si sono mai incontrati e quest’ultimo ha risposto picche ad ogni invito del presidente israeliano.

Se fra Netanyahu e Abu Mazen c’è il gelo fra Israele e Stati Uniti il calore tradizionale è sceso al grado più basso nella storia delle relazioni fra i due Stati. Il presidente Obama non ha mostrato nessuna fretta nell’incontrare il presidente israeliano e la nuova amministrazione americana insiste ora sul blocco degli insediamenti israeliani nei territori occupati come condizione per lasciare ai palestinesi uno Stato che non sia un colabrodo di insediamenti stranieri e soprattutto come garanzia di buona fede nella promessa dei due Stati. Ma difficilmente anche a Washington si può ignorare che il governo Netanyahu, con gli elettori che l’hanno votato e con i partiti che ha nella sua maggioranza, non resisterebbe, con tutta probabilità, alla decisione di bloccare le colonie. Forse Obama mira a cambiare in Israele non solo politica, ma anche cavallo. Tanto più che ora Washington e Gerusalemme divergono non solo sulla questione palestinese, ma sul quadro di tutto un Medio Oriente su cui si allunga l’ombra della possibile minaccia dell’atomica iraniana. E di fronte all’Iran Obama preferirebbe andare ad un possibile dialogo portandosi dietro, in omaggio, la soluzione della questione palestinese, mentre Netanyahu prende a pretesto l’urgenza del nucleare iraniano per riporre fra i compiti del giorno dopo la questione palestinese.

In una diffidenza sempre più grande ora aumentano le distanze e da entrambe le parti ci si riprende anche quello che in passato era stato formalmente già concesso. Da parte israeliana si fa marcia indietro sulla prospettiva della divisione di Gerusalemme come capitale di due Stati, dimenticando che non solo i palestinesi ma l’intero mondo islamico non rinuncerà alla perdita totale di quella che per il Corano è «la città lontana», così come troppo dolorosamente il mondo cristiano vedrà negata definitivamente quella internazionalizzazione dei Luoghi Santi prevista a suo tempo dal primo piano di spartizione dell’Onu e la cui mancata attuazione è fra le cause principali dell’attuale emarginazione dei cristiani nel luogo in cui la loro fede ebbe la sua culla. Da parte palestinese si è ritornati ad insistere sul diritto totale al ritorno dei profughi senza l’alternativa di un indennizzo per il mancato rimpatrio, facendo finta di ignorare che con il ritorno di milioni di arabi si metterebbe in discussione il carattere nazionale dello Stato ebraico.

Il «fai da te» oltre che nell’accaparramento di Gerusalemme da una sola parte ritorna anche nel cercare sicurezza solo attraverso uno Stato palestinese disarmato e controllato sul piano interno e internazionale, lasciando cadere le offerte che già da tempo sono state avanzate per una garanzia internazionale sulla sovranità e l’esistenza di Israele e per il dislocamento di forze di pace ai suoi confini.