Opinioni & Commenti

La cultura in Toscana/2: il gioco della bottiglia

di Franco Cardini

La mia «Provocazione» (si chiamava proprio così) su «Toscana Oggi» dell’11 gennaio scorso, sulla cultura in Toscana «più a terra della porcacchia» (La stato della cultura in Toscana? Più a terra della «porcacchia») ha raggiunto in qualche modo il suo scopo. È difficile muovere i toscani: o lo fai con i guanti e in punta di forchetta, e allora non ti degnano nemmeno; o lo fai con le cattive, e allora s’indignano, ti mettono il broncio, fanno gli offesi. È difficile trovare il giusto mezzo. Infatti, l’articolo ha suscitato reazioni. Molte positive. Ma anche proteste e perfino qualche contumelia. E allora vediamo di capirci.

Cultura toscana «a terra»? Sissignori, lo dico e lo ripeto. Crisi delle università, scuola ed «educazione degli adulti» che non marciano, editoria che zoppica e che vende poco (e quando lo fa son libri d’occasione o roba tipo «turismo/gastronomia»), gente che sembra appassionata solo alle sagre della salsiccia (o dei marroni, o del pecorino, o di quel che volete) e che anche quando straparla di «identità» non sa nemmeno dove stiano di casa la storia, l’arte, le tradizioni. I livelli di troppe manifestazioni che attraggono pubblico è penoso: magari, stands gastronomici a parte. Ma la cultura si mangia e si bevve: certo, senza dubbia, e quando è fatta bene è cultura serissima. Però si dovrebbe anche vedere, ascoltare, leggere, dibattere e così via. E lì siamo bassini. Ma non si deve mai cedere al qualunquismo, al bartaliano «l’è tutto sbagliato». Quando dico che la cultura toscana va male, non intendo totalmente, in assoluto. Non siamo una regione di analfabeti né d’ignavi. Anzi, il problema è proprio questo. Se fossimo in Friuli, in Molise o in Calabria – con tutto il rispetto per quelle splendide, nobilissime regioni – allora andremmo benissimo. Il fatto è che siamo in una regione che per secoli è stata un autentico faro per l’Europa e per il mondo e che ha mantenuto un suo tono «alto» anche in tempi di crisi e di depressione. Abbiamo un capoluogo, Firenze, che fra due e Cinquecento, e poi di nuovo tra Otto e Novecento, è stata sul serio una delle capitali culturali del mondo: la città, a non dir altro, non solo di quello che è forse il più grande poeta dell’umanità, ma anche di quell’altro che ha dato il nome all’America, di quell’altro ancora ch’è un genio universale e intuì perfino le regole del volo umano e di quell’altro infine che ha rivoluzionato l’astronomia. Siamo onesti: come si fa a essere degnamente erede di gente così?

Diciamo quindi che la cultura in Toscana è come una bottiglia di vino a metà: il pessimista potrà dire che è mezza vuota, ma l’ottimista ribatterà che invece è mezza piena. Hanno ragione tutti e due. Ch’è un modo di dire che hanno torto entrambi.

Molti mi hanno però rimproverato di essere stato troppo duro e anche ingiusto, di aver omesso o trascurato molte cose, di aver dato qualche giudizio sbagliato o inesatto. Degli errori e delle inesattezze mi scuso. Quanto alle omissioni o alle sottovalutazioni, va detto che si trattava d’intavolare un problema a livello generale: in poche righe non si possono dare i particolari analitici.

Raccolgo però la sfida. In Toscana c’è al livello culturale molto di buono, sia nelle pubbliche amministrazioni sia in varie iniziative e imprese. Parliamone. Assessori che si sforzano di far bene, teatri che propongono cose interessanti, musei che dovrebbero esser conosciuti di più e meglio, sodalizi che spesso fanno buona cultura e se la pagano di tasca loro, enti e imprese che s’impegnano nel mecenariato (cioè, come qualcuno preferisce dire, nella sponsorship), editori e riviste che stampano molte cose e cose buone, artigiani che lavorano ad alto livello sacrificando talvolta i proventi alla qualità del prodotto. Partirò alla scoperta di questa Toscana di qualità: e pian piano ve ne presenterò alcuni casi.

Comincio dal campo che mi è più familiare: l’editoria. Qui, la prima cosa da dire è che il difetto non sta tanto nell’offerta, quanto nella domanda. Editori disposti a pubblicare buoni libri ce ne sarebbero: ma la pubblicità costa cara, i mass media non sono granché disposti a sostenere questo tipo di mercato, la distribuzione si mangia gran parte dei proventi e il pubblico è scarso, disimpegnato, distratto. Bisognerebbe far molto di più, cominciando dalle scuole; e magari organizzare mostre-mercato che valorizzassero i libri e gli editori toscani.

Nella mia «provocazione» avevo anche citato qualche nome di editori toscani e parlato di libri stampati a pagamento degli autori: il che del resto, intendiamoci, è perfettamente legittimo e rientra nelle pratiche commerciali vigenti; solo che un’impresa che si fa pagare dagli autori per stampare è una tipografia, una stamperia, non una casa editrice. L’editore è un imprenditore: che stampa, certo, ma che anzitutto promuove, quindi rischia. E qui debbo scusarmi. Né Vallecchi né Salani – i nomi che facevo come esempi di editori fiorentini – praticano questo tipo di attività: è stato un «corto circuito» fraseologico a farmi dire quel che non volevo. Sono editori, non stampatori.

Colgo appunto l’occasione per parlar subito di Vallecchi, che qualche anno fa ci lasciò molto ammirati per l’apertura del «caffè-letterario» Bizzeffe in Via Panicale. Era un’iniziativa bella e intelligente: purtroppo la città non la «resse», non la sostenne. Ecco quel che voglio dire quando sottolineo che con la cultura a Firenze non ci siamo. Non si lascia cadere un’iniziativa così.

Ma Vallecchi, che il tenace ed entusiastico impegno di Fernando Corona ha riportato a interessanti livelli qualitativi e quantitativi, si sta sviluppando almeno in due direzioni che mi sembrano coraggiose e interessanti. Da una parte le riproduzioni facsimilari di codici di straordinario pregio, come il «”Libro dei Salmi» di Federico II della Riccardiana di Firenze o il manoscritto della Nazionale di Roma della «Legenda maior sancti Francisci»: che sono opere da intenditore e da collezionista, ma tutt’altro che esclusivamente «commerciali». Dall’altra un impegno mirato alla grande cultura fiorentina: ed ecco le anastatiche complete di due riviste sul serio fondamentali, «Lacerba» e «Il Leonardo»; e, ancora, il Dizionario del Futurismo in due volumi e alcuni capolavori del «catalogo storico» vallecchiano, come la Storia di Cristo di Papini.

Un impegno così dovrebb’essere meglio conosciuto in città, a partire dagli enti locali. L’uscita di ciascuna delle opere che ho menzionato avrebbe dovuto coincidere con un «grande evento» cittadino: ma si tratta di cose che costano, e non si può certo chiedere all’editore di accollarsene il peso. Mancano le cinghie di trasmissione, manca il lavoro d’informazione e di sensibilizzazione. Sono gli assessorati, le fondazioni delle grandi banche, i mass media della televisione e della carta stampata che restano distratti. Bisogna svegliarli.

E allora, che cosa manca ancora a Vallecchi? Che cosa è lecito aspettarsi da un’editrice del genere? Forse, appunto, una coraggiosa ripresa di un «grande catalogo» come quello vallecchiano di qualche decennio fa. Certo, bisogna inventarselo. Per questo, ci vorrebbe qualche collana di qualità alta, affidata a personaggi di prestigio, con magari qualche nome di richiamo ma anche con firme giovani, di quelle che potrebbero far parlare di sé. Sono «fiori all’occhiello» che costano, che fanno rischiare. Ma, quando e se ci si azzecca, valgono la pena.