Opinioni & Commenti

La disoccupazione in Italia si combatte a Bruxelles più che a Roma

Tutti sono d’accordo, almeno a parole, che la disoccupazione è oggi l’emergenza sociale più drammatica e il problema che bisogna affrontare prima di ogni altro. Le cifre della disoccupazione non sono mai state così alte. In Italia i disoccupati sono all’11 per cento di chi intende lavorare. Ma c’è anche chi sta peggio di noi. In Irlanda la disoccupazione è al 14 per cento, in Portogallo è al 17 per cento, in Spagna e in Grecia è ormai intorno al 27 cento. In tutta la zona euro i disoccupati sono ormai 19 milioni: una nazione con le mani in mano che equivale a quelle della Norvegia, della Danimarca, della Finlandia e dell’Irlanda messe insieme. E questo livello di disoccupazione, mai visto dall’indomani della seconda guerra mondiale, tende a diventare stabile, strutturale e non congiunturale, così da fare temere che sia la maledizione connaturata a questo nuovo, inedito mondo del Duemila, caratterizzato dalla globalizzazione mondiale dei mercati e dalla prevalenza del capitale finanziario sul capitale industriale. Secondo una ricerca la maggior parte dei disoccupati europei è ormai senza lavoro da molto più di un anno andando incontro alla obsolescenza della propria qualificazione professionale, alla rinuncia rassegnata a cercare di uscire dal proprio stato, al progressivo abbandono di uno stato sociale che non ce la fa più ad assistere due cittadini inattivi su tre fra minori, anziani a disoccupati.

E c’è addirittura chi già teorizza l’alta disoccupazione permanente non solo come una realtà inevitabile a cui dobbiamo rassegnarci, ma anche come mezzo per uscire dalla crisi degli ultimi quattro anni. L’agenzia di rating americana Standard & Poor, partendo dall’esempio irlandese in cui quella che viene chiamata eufemisticamente produttività (in realtà un alleggerimento del costo del lavoro dovuto per un quarto alla diminuzione dei salari e per tre quarti ai licenziamenti) ha fatto crescere le esportazioni, ha già decretato che questa sarebbe la soluzione. La Deutsche Bank, la grande banca di Francoforte, ha prescritto la stessa ricetta anche per la Spagna dove pure la stessa cosiddetta «produttività» avrebbe permesso un balzo nelle esportazioni in virtù della enorme disoccupazione.

La prima consapevolezza da conquistare è oggi quella di respingere questi consigli pelosi che, in nome della crisi, vorrebbero riuscire ad appiattire anche in Europa il costo del lavoro per renderlo più concorrenziale con i bassi salari di gran parte del mondo in nome della filosofia mercatista della globalizzazione. E poi bisogna intervenire sul serio contro la disoccupazione. Il nostro nuovo governo sembra considerare prioritaria la lotta alla disoccupazione anche se nelle sue dichiarazioni programmatiche il premier Letta ha indicato soluzioni piuttosto parziali come il part time per i lavoratori in attesa della pensione e il superamento del precariato nella pubblica amministrazione. I due principali partiti che sostengono il governo hanno nei loro programmi proposte diverse per ridurre la disoccupazione. Il Pd punta sull’allentamento del patto di stabilità che blocca le spese degli enti pubblici e in generale sull’aumento degli investimenti produttivi. Il Pdl vorrebbe fare leva sulle detrazioni fiscali e contributive alle imprese che assumono. Sono due tipi di interventi che hanno entrambi un notevole costo e il progetto della destra forse non costa meno di quello della sinistra come a prima vista potrebbe sembrare. Negli Stati Uniti Obama l’anno scorso ha speso 300 miliardi di dollari di detrazioni fiscali per ottenere dalle imprese non più di 114 mila assunzioni. In Francia Hollande ha ridotto la disoccupazione di 150 mila unità concedendo ben 2,3 miliardi di euro in incentivi alle aziende che assumono i giovani. In realtà anche per combattere la disoccupazione sia con gli vestimenti sia con gli incentivi ci vogliono risorse. Se poi decidessimo di organizzare quel servizio pubblico di accompagnamento del disoccupato, con formazione professionale e con ricerca di un nuovo lavoro finché non lo trova, che sembra l’intervento che più ha avuto successo, almeno secondo l’esperienza svedese e quella tedesca, i capitali da investire nella lotta alla disoccupazione dovrebbero essere ancora più corposi.

Insomma per combattere la disoccupazione, sia detto anche con lo scandalo dei teorici del rigore a prezzo di lacrime e sangue (espressione che purtroppo non è più solo un iperbole, ma che, come dimostra la cronaca, in alcuni casi va ormai presa alla lettera), bisogna in pratica allentare la borsa. E la battaglia per ottenere nuove risorse si combatte più in Europa che in Italia. Il giro delle capitali dove si decide la politica europea che Enrico Letta ha voluto fare appena ottenuta la fiducia non è solo un viaggio, ma è anche un messaggio. Sarà soprattutto a Bruxelles più che a Roma che si potrà dare via libera ai mezzi per combattere la disoccupazione in Italia. Il mese prossimo, quando si riconoscerà finalmente che l’Italia ha rispettato il limite del debito non superiore al tre per cento rispetto al Prodotto interno lordo, si dovrebbe finalmente concedere al nostro paese qualche vincolo di manovra un po’ più largo. Non allentare un po’ il cappio che impedisce di fatto da due anni al nostro governo di fare delle scelte politiche in cui crede sarebbe fra l’altro assurdo nel momento che alla Francia con il suo debito al 3,9 per cento e alla Spagna con il suo debito al 6, 9 per cento è stata concessa ancora una proroga di due anni per rientrare nei vincoli del trattato di Maastricht.