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La giustizia si nutre anche di misericordia

di Giuseppe AnzaniNei giorni che hanno preceduto il Natale molte voci si sono levate a chiedere un’amnistia per i detenuti. L’ha fatto Pannella, lanciando come suo solito una provocazione, quella di portare in piazza un milione di persone il pomeriggio di Natale. Ma l’hanno fatto anche alcuni uomini di fede, noti per l’impegno sociale accanto ai diseredati e ai sofferenti, come don Mazzi, e uomini politici di vario orientamento, e giornalisti, e gente comune. Natale non è Natale se il cuore si chiude all’altrui dolore.

Sono molti anni che in Italia si attende un’amnistia, invocata e controversa. Ci si accalora a tratti, se ne discute a singhiozzo, e poi tutto s’affossa. Il volgere del millennio era parso il tempo più acconcio per inserire nell’orizzonte del grande Giubileo anche un segnale civile di umana riconciliazione. Non è accaduto, e la parola del papa Giovanni Paolo II – ricordiamo – rimase una invocazione inascoltata. Applaudita, sì, ancora quando fece visita al Parlamento, applaudita per sette minuti filati; ma inascoltata.

Nel mondo politico, bloccato nell’arrocco incrociato di antagonismi e di discordie spesso preconcette, la parola «amnistia» spacca gli umori e le opinioni. Su un versante, la paura per la sicurezza sociale induce a non allentare l’allarme e fa ritenere a molti insensata l’idea di rimettere in circolazione i «delinquenti». Sull’altro versante, la situazione carceraria divenuta così sovraffollata e penosa da rasentare la crudeltà, induce a riflettere che lo scopo della punizione, che è l’emenda del reo, non si raggiunge con la ferocia ma chiede a volte segnali di misurata clemenza, a darci memoria che nessuno di noi diviene feccia perché ha sbagliato una volta. È difficile far conto che accada qualcosa di concreto, in Parlamento, nei dintorni del Natale; è difficile sperare che nello scorcio della legislatura, che già rotola verso le elezioni, possa sopraggiungere una legge di amnistia, condivisa dalle forze politiche. Forse un indulto, un gesto di misericordia che accorci la sofferenza, almeno, dei detenuti per reati «minori»; perché stare ammassati in 60 mila in strutture che ne possono contenere meno di 40mila non è una pena, è una tortura.

In Italia la giustizia penale sta collassando sotto il peso di cinque milioni di processi arretrati, molti dei quali finiranno per perdersi in quella amnistia strisciante che è la prescrizione; potrebbe essere un utile coraggio concentrare la fatica sui delitti che provocano maggior allarme sociale, a preferenza che su quelli di devianza minuta, spesso collegati al disagio e alla emarginazione dei più fragili, che chiede guarigione e sostegno prima che repressione. D’altra parte, sappiamo che il portone del carcere non è il confine fra devianti e onesti, dato che l’80 per cento delle denunce resta un enorme «numero scuro» di reati senza pena. Ciò significa che è la nostra onestà collettiva la posta in gioco, e non si raggiunge facendo solo volare gli stracci, ma attraverso una conversione collettiva, che vuole insieme rigore e misericordia, per gli altri come per noi.

A Natale, questo pensiero si fa pungente: non c’è colpa senza perdono e non c’è perdono senza penitenza. Ma quel Bambino che apre le braccia dal presepe annuncia che la Giustizia si nutre anche di misericordia.

Il sito del ministero della giustizia con i dati statistici sui carceri italiani

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