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La lotta alla fame non ha più alibi

Il tema di sfamare miliardi e miliardi di uomini, anche se passato un po’ in ombra negli ultimi anni, rimane tuttavia la grande sfida della nostra epoca, la sfida a cui finalmente hanno potuto tecnicamente tenere testa gli uomini del recente passato e che gli uomini dell’ immediato futuro sono ora moralmente chiamati ad affrontare. Per millenni la fame è stata una malattia incurabile per quasi tutti gli abitanti del pianeta come la pesta e la lebbra lo erano per un periodo e per qualcuno. La vita dell’uomo medio, era per usare la celebre definizione di Hobbes, «miserabile, bestiale e breve».

Poi negli ultimi due secoli, attraverso la scienza e la tecnica, l’uomo ha trovato gli strumenti che, se usati, possono sconfiggere la fame. Già quaranta anni fa Aurelio Peccei, il famoso fondatore del Club di Roma, diceva: «Nei tempi antichi e fino a non molto tempo fa la fame nel mondo era la norma e non poteva costituire un problema morale. Oggi che possediamo invece un patrimonio di conoscenze scientifiche, innumerevoli tecnologie, lo è diventato». E l’esperienza degli ultimi decenni ha dimostrato che l’uomo se vuole ha i mezzi per dare cibo anche a una umanità che si moltiplica per tre. Sessanta anni fa vivevano sulla terra due miliardi di uomini e metà di loro soffriva la fame. Oggi ci sono sette miliardi di uomini e meno di un miliardo patisce la fame vera e propria.

Nel secolo scorso la produzione agricola mondiale è aumentata di cinque volte e negli ultimi cinquanta anni la resa del grano è cresciuta di tre volte e quella del riso di due volte e mezzo. Il mondo ha dunque la possibilità di fare sparire definitivamente la fame dalla faccia della terra. Basta che lo voglia. Come ricordava il Papa alla assemblea della Caritas internationalis del maggio scorso: «Il pianeta ha cibo per tutti, ma sembra manchi la volontà di condividere con tutti».

E l’impegno nella determinazione di sconfiggere la fame diventa oggi fondamentale perché è ormai l’elemento decisivo in questa battaglia. Finora il mondo è stato sfamato in una forma quasi naturale e conveniente per tutti attraverso i grandi surplus agricoli del Nord America, dell’Europa, dell’Oceania. Oggi questo incremento costante basato sulla crescente produttività di un parte del pianeta si sta esaurendo. Da alcuni anni i suoli coltivabili stanno diminuendo anziché crescere soprattutto per la desertificazione. I rendimenti dei prodotti agricoli sembra che abbiano toccato il massimo e non potranno più migliorare. L’acqua (tema questo anche di diversi padiglioni dell’Expo) diventa sempre più preziosa e ha altre priorità prima di essere usata per aumentare l’irrigazione. Meccanizzazione della agricoltura e concimazione dipendono entrambe dal petrolio che non durerà ancora per molto.

Il riscaldamento del pianeta può essere un fenomeno quasi irrilevante per i paesi dell’America e dell’Europa settentrionale mentre può inaridire per sempre parte dell’Asia Meridionale e gran parte dell’Africa. L’esaurimento delle risorse e l’inquinamento dell’atmosfera costringeranno prima o poi tutti a ridurre in un modo o nell’altro la propria crescita. Sfamare il pianeta richiederà insomma sempre più sacrifici che vantaggi soprattutto per chi già mangia anche troppo. Come dice il Papa il problema della fame nel mondo diventa sempre più un problema di distribuzione che di produzione. Attiene sempre di più, come ricordava Peccei, alla sfera morale che alla sfera economica.

Oltretutto diventa sempre più evidente che la fame ha sempre più a che vedere con la guerra non solo come conseguenza, ma anche come causa. È la Fao a ricordarci che ormai la fame si sta concentrando soprattutto nell’Africa sub sahariana e che l’Africa sub sahariana è da troppo tempo la patria maledetta e quasi costante delle piccole o grandi guerre civili. L’Afganistan è oggi un paese in cui il trenta per cento della popolazione soffre la fame e la fame sta crescendo perfino in Iraq. In un libro uscito il mese scorso («Black Earth: the Holocaust as Histoiry ad Warning» di Thimoty Snynder, della Università di Yale) si fa notare che anche il genocidio del 1994 in Ruanda con quasi un milione di morti fu preceduto da una carestia di diversi anni e che la guerra ormai ultradecennale in Sudan è stata preannunciata da una lunga siccità. Nell’un caso e nell’altro ognuno voleva impossessarsi delle terre dell’altro. E questo potrebbe essere il capolinea di un mondo di cui le grandi migrazioni di oggi, che pure spaventano tanti, sono solo il piccolo, pacifico e accettabile primo passo.