Opinioni & Commenti

La regola aurea della giustizia

di Francesco Mario Agnoli magistrato ex consigliere csm In un paese ideale le sentenze non verrebbero mai criticate. I cittadini avrebbero piena fiducia nell’impegno, nella capacità di discernimento, nell’indipendenza e, soprattutto, nell’onestà dei loro giudici, diligenti indagatori della verità. Al massimo si potrebbe avanzare il sospetto di un errore di buona fede nel valutare le prove in un processo indiziario.

Pretendere che questo ideale paese, mai esistito in nessun tempo e in nessun luogo, sia l’Italia sarebbe davvero eccessivo. Non così invece auspicare che in uno Stato civile e ben ordinato nessuna sentenza di nessun processo venga accolta da manifestazioni di esultanza da tifo calcistico e, sul fronte opposto, da commenti, soprattutto da parte di chi riveste rilevantissime funzioni pubbliche, che mettono in dubbio non l’esattezza del giudizio per un errore umano, ma l’onestà dei giudici.

A proposito della sentenza del processo Previti l’unico commento possibile è che si tratta solo della decisione di primo grado e che anche per l’on. Previti vale fino alla sentenza definitiva la presunzione d’innocenza sancita dalla Costituzione. Di conseguenza, il giorno dopo la sentenza la situazione resta, nel bene e nel male, pressoché la stessa del giorno prima, esclusi gli imputati, sui quali grava la pressione psicologica di una condanna a non lievi pene detentive.

Nel bene e nel male, perché già l’iter processuale aveva reso evidente che c’era chi voleva acquisire un’arma utilizzabile in sede politica per ribaltare un responso elettorale in realtà mai veramente accettato. Ugualmente il presidente del consiglio non aveva atteso la sentenza per un incredibile commento al processo: “E’ una persecuzione. Bisogna risolvere il problema della politicizzazione della magistratura”.

Che dire poi dell’imputato, l’on. avvocato ed ex-ministro Cesare Previti? Anzitutto che in realtà gli imputati erano sette – uno dei quali, il giudice Filippo Verde, assolto -, mentre un ottavo, un altro avvocato, era già stato giudicato con rito abbreviato e condannato a 6 anni di reclusione. Tuttavia solo lui ha occupato la scena, nonostante che, quanto meno sul piano morale e della credibilità del sistema nei confronti dell’opinione pubblica, dovesse apparire di ben maggiore rilievo la posizione dei coimputati magistrati accusati di essersi lasciati corrompere. Non perché l’uomo-magistrato sia naturalmente più onesto dell’uomo-avvocato o dell’uomo-industriale, ma perché un magistrato che per denaro (o altro) ripartisce in modo ingiusto il torto e la ragione arreca al sistema-giustizia ferite più gravi di chi tenta di corromperlo.

Al contrario, i coimputati hanno svolto il ruolo di comparse, incluso quel magistrato della Corte d’Appello di Roma, che ha riportato la condanna più elevata: 13 anni di reclusione, ad ulteriore prova della distorsione patita da un processo caricato di significati politici. Né a colpevolisti né ad innocentisti importava alcunché della decisione del tribunale nei confronti di questi imputati-fantasma, perché né la loro condanna né, tanto meno, la loro assoluzione sarebbero state politicamente spendibili. Tredici anni di reclusione ad un consigliere della Corte d’Appello non politicamente impegnato lasciano tutti indifferenti (con l’ovvia esclusione del diretto interessato e dei suoi familiari). Gli undici (ma ne sarebbero bastati un paio ) inflitti all’on. Previti consentono ai suoi nemici di minare la credibilità di governo e maggioranza col semplice artificio di alludervi fosse solo per ripetere ad ogni piè sospinto quanto ne sia sbagliata l’utilizzazione politica, ma anche ai suoi amici di portare acqua, con gridati eccessi di sdegno, al progetto di sovvertimento dell’ordinamento giudiziario designato dalla Costituzione e al sogno (vecchio come l’unità d’Italia e mai del tutto abbandonat o) di controllo politico quanto meno della magistratura inquirente.

Resta, a conforto di chi considera la giustizia bene primario, l’esempio di Giulio Andreotti, autentico uomo delle istituzioni, sia nel corso decennale dei processi cui è stato sottoposto, sia di fronte ai loro esiti: a Perugia, con l’inattesa condanna in appello, come a Palermo, con la recentissima conferma dell’assoluzione in primo grado. Tuttavia se si vuole che diventi la regola e non resti l’eccezione, universalmente lodata proprio perché tale, occorre che tutti accettino nei fatti e non solo nelle parole che anche per i politici, inclusi gli avversari, vale la regola aurea della presunzione d’innocenza. In caso contrario, sarà inevitabile ristabilire la pur deprecata immunità parlamentare o qualche surrogato idoneo ad evitare scontri e reciproche delegittimazioni fra poteri dello Stato.