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La rottura della famiglia è ormai una piaga sociale

Secondo i dati dell’Associazione dei matrimonialisti italiani sarebbero ben centocinquantamila i padri separati che hanno perso ogni contatto con i figli e sarebbero quasi un milione coloro che li possono vedere solo una volta la settimana. Così, in Italia forse più che altrove, con la separazione e il divorzio si perdono troppo spesso di fatto, dopo il coniuge, anche i figli diventati strumento di ricatto quando non addirittura di vendetta. D’altra parte ci sono dei casi anche se estremi in cui il separato o il divorziato non potrebbe ospitare i figli anche gli fosse permesso perché, caduto in povertà, è costretto a dividere una camera con altri o addirittura a dormire in macchina. Sempre secondo i dati dell’Associazione matrimonialisti italiani, i padri che a Milano chiedono assistenza alla Caritas sarebbero cinquantamila e a Roma ben novantamila. Ed è difficile che in questi casi un genitore non provi un senso di vergogna a prendersi un figlio per portarlo ad una mensa a fargli scoprire la propria indigenza.

Anche se si ha un po’ paura a ricordare un dato di fatto che si pensa possa danneggiare la causa della più assoluta libertà di scelta all’interno della coppia, bisogna purtroppo ammettere che la separazione o il divorzio è diventato ormai una delle cause, nemmeno tanto secondaria rispetto alle altre, della caduta improvvisa nel girone dei poveri. Quando, ad esempio, in seguito alla separazione seguita o no dal divorzio si deve lasciare la casa che si abitava e pagare un affitto e gli alimenti è difficile che si riesca a fare fronte a questi nuovi obblighi con il proprio stipendio e continuare a tenere un tenore di vita decente. In questo caso sempre più spesso si diventa poveri non perché, come nel caso della sorte che più si racconta, si è perso il lavoro o è fallita la nostra azienda, ma perché si è perso il compagno o la compagna della propria vita ed è fallito il nostro matrimonio.

Secondo gli stessi dati citati sopra sarebbero ben ottocentomila i separati che vivono sotto la soglia di povertà. È una cifra impressionante che equivale a più di un terzo del totale dei separati e a più di un quarto del totale dei poveri del nostro paese. E, a differenza del disoccupato e del fallito economicamente che può trovare ancora un sostegno morale e materiale dentro una famiglia che conserva alle spalle, il naufrago da un matrimonio deve aggiungere alla nuova povertà il vuoto della solitudine e, se incolpevole, il peso schiacciante del dramma di un abbandono che sente immeritato. Di fatto la rottura della famiglia è anche ormai, inutile negarlo, «una piaga sociale». E, nonostante tutti i principi, le ideologie e le sociologie di una cosiddetta modernità familiare che chiamiamo a giustificazione di una emergenza che non deve essere chiamata per nome e considerata tale, rimane una contraddizione che appare insuperabile fra la libertà che dobbiamo rivendicare quando pensiamo di esercitare un diritto rompendo una famiglia e la responsabilità delle conseguenze che dobbiamo cercare purtroppo di dimenticare per sentirci veramente liberi, innocenti e persino pimpanti per potere ricominciare.

Nella dichiarazione dei diritti dell’uomo i rivoluzionari francesi diedero la più nota delle definizioni di libertà: «La libertà consiste nel potere fare ciò che non nuoce ad altri». Questa definizione si applica benissimo a chi canta in alta montagna. Molto meno nel matrimonio dove in fondo c’è sempre chi soffre, poco o molto, della nostra libertà, che anche se la vogliamo considerare sacrosanta, non è mai innocua: come minimo verso il coniuge più debole che la subisce sia esso uomo o donna e i figli che in un modo o nell’altro quasi sempre la pagano. E, prima ancora delle leggi che a questo proposito si propongono, come quella sull’affidamento condiviso o sugli alimenti non superiori ad una parte di reddito, è la coscienza che deve contare quanto la libertà costa in dolore e quanto, da noi per gli altri o dagli altri per noi, sempre in ogni caso dovrà essere pagato.