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Legalità, un discorso che non sopporta approssimazioni

di Umberto SantarelliLa legalità, da qualche giorno a questa parte, fa notizia: da ultimo a rinfocolare la diatriba è stato Sergio Cofferati, sindaco di Bologna – quello che, quand’era Segretario generale della Cgil, tutti chiamavano (forse non per caso) «il cinese» – che ora, da pubblico ufficiale, pretende che tutti, anche quelli che hanno concorso ad appoggiarlo quando s’è presentato candidato alle elezioni amministrative, rispettino le regole della legge.

Rifondazione Comunista è scesa in piazza dinanzi a Palazzo d’Accursio con altri gruppi della sinistra estrema per contestare clamorosamente il Sindaco; intellettuali come Alberto Asor Rosa, accademicamente autorevoli e politicamente schieratissimi pur restando orgogliosamente al di fuori degli schieramenti partitici tradizionali, hanno qualificato come «moderato» il comportamento del Sindaco (e tutti sappiamo che, in un certo vocabolario politico, pochi epiteti son più ingiuriosi di questo).

Il discorso sulla legalità non è per nulla facile; e soprattutto non sopporta approssimazioni disinvolte. Nessuno pensa di rimettere in onore quel rozzo positivismo d’altri tempi, che riteneva la legge (intesa, proprio e solamente, come un insieme di regole scritte) prodotto arbitrario d’un legislatore onnipotente che per natura sua ha titolo per esser interpretata osservata ed applicata alla lettera. Più che di legge bisognerebbe invece abituarsi a pensare e a parlare di diritto; dell’ordine, cioè, che governa ogni società in conformità ai valori che quella società riconosce e fa proprî, e che per questo rappresenta la naturale condizione di sopravvivenza della società stessa. Certo, il diritto può e deve continuamente cambiare, adeguandosi giorno per giorno al mutare delle situazioni e delle culture; e tutti, a diverso titolo e in misure variabili, devono sentirsi coinvolti in quest’opera di quotidiano aggiornamento. È verissimo quel che da tanti secoli s’è capito e s’insegna, che dove manca il diritto non esiste nemmeno la società; sicché a travolgere il diritto si distrugge anche la convivenza degli uomini.

La conclusione del ragionamento dovrebbe apparir chiara a chiunque: il diritto (non la legge fatta solamente di formule scritte), in quanto complesso organico delle regole dello stare insieme, è la condizione di sopravvivenza di qualunque società: può e deve esser quotidianamente adeguato alle quotidiane emergenze, ma non può venir disatteso per puro capriccio o per obbedire a un inconsulto soprassalto d’umore. E nessuna istituzione potrebb’esistere se fosse priva d’un ordine compiuto e condiviso e senza chi provveda giorno per giorno a garantirne l’osservanza con mezzi corretti ma efficaci.

Insomma, si possono e si devono trasformare, quotidianamente e all’occorrenza anche profondamente, le regole del diritto e i principî che le governano; ma fintanto che queste regole ci sono, devono esser obbedite e applicate. Perché, molto più di quanto non si creda, la giustizia è fatta di certezza.