Opinioni & Commenti

Libia, le troppe contraddizioni della «legalità internazionale»

di Franco Vaccari

Marzo 2011: sono 23 gli Stati che si affacciano sul Mare Nostrum e quell’antico nome, che indicava la proprietà esclusiva dei latini, è ormai felicemente volto nel significato più interessante: nostro è pronome plurale inclusivo per eccellenza. Una pluralità di popoli chiede cittadinanza, irrompendo alla ribalta della storia in modi assolutamente diversi, e il «mare fra le terre» ne è silenzioso e quotidiano testimone. Un sommovimento a cerchi concentrici, un maremoto storico con epicentro nella profonda corrente ionica intorno a Cipro, nella riva sud, che va da Duma, nel deserto a nord di Damasco, alle acque del Golfo Persico che lambiscono lo Yemen, agli stretti che per paura vorrebbero allargarsi fino alle diverse grida di libertà che desidererebbero abbracciarsi.

In uno scenario così imprevedibile, dalle 17,45 di sabato 19 marzo, ora di inizio dell’operazione «Odissea all’alba», restano alcune certezze e si aprono molti interrogativi. Non c’è dubbio che «con la pace tutto è possibile e con la guerra tutto è perduto». Perché? è scoppiata forse una guerra? Si può definire guerra questo che vediamo? Certamente eserciti di diverse nazioni stanno bombardando una nazione che non ha dichiarato guerra a nessuno. Certamente il capo legittimo di quella nazione sta compiendo un massacro nei confronti di suoi concittadini. Certamente chi sgancia bombe si affanna a dire che non vuol eliminare Gheddafi, ma solo colpire obiettivi militari strategici (eccetto la Francia: perché tanto zelo pro-Libia e tanta pigrizia verso la Tunisia?). Nessuno vuol far del male al capo libico. Prima tutti lo corteggiavano, facendo a gara per esserne il favorito, adesso nessuno lo vuol colpire… Bene. Anche credendo che si voglia compiere solo l’azione ben delimitata e circoscritta prevista dalla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, prima di aprire il fuoco bisogna pensarci e, anche se configurato come «atto legale» perché sancito dalle Nazioni Unite, appoggiato dalla Lega Araba e collocato nell’orizzonte dell’aiuto umanitario, sparare significa inevitabilmente uccidere. A sparare si giunge quando la situazione è deteriorata e, in questo caso, lo era evidentemente. Da tempo, oltre la retorica e le diverse convenienze che sempre la alimentano. La politica ha fallito. E  siccome è quella stessa politica che sta gestendo la «tecnica» delle armi, l’orizzonte non è molto tranquillizzante.

Non c’è dubbio che ogni rombo di aereo che porta bombe micidiali muove un brivido oscuro che accende pensieri angosciosi. Non nascondiamo però che si innescano pure brividi contrastanti. La guerra può aggregare emozioni e calamitare identificazioni ambigue, aggressività sopite, ansie di riscatto, ostentazioni di forza: forze oscure si scatenano e, come fenomeni carsici, appaiono in luoghi e tempi imprevedibili.Non c’è dubbio che un altro brivido traversa chi ascolta un premio Nobel per la pace – Barak Obama – dare ordini all’esercito di sparare più di cento missili in una notte. D’altronde se si è a capo di uno stato e, dunque, di un esercito significa che si è pronti a dare quell’ordine. Meglio sarebbe stato accettare il Nobel senza ritirarlo e passare a fine mandato, a certificato di merito ormai rilasciato.

Non c’è dubbio che l’appello degli insorti libici, da Bengasi, alla comunità internazionale tocchi la corda dell’umana solidarietà e costituisca uno specchio impietoso all’ignavia e all’indifferenza occidentale, già consumata nei Balcani e altrove. Sarajevo, Sebreniza e dintorni non possono essere rimossi tanto facilmente dalla coscienza europea.

Non c’è dubbio che non si può lasciarsi paralizzare tra una paura e l’altra: perdere gas e petrolio o essere invasi dagli immigrati? Impostato così il problema non ha soluzione.

Non c’è dubbio che ci sia bisogno di più Europa. E non solo quando arrivano gli emigranti e si trattengono a lungo in un’isola non si sa perché (o si sa perché!?).Più Europa quando si tracciano le politiche di lungo respiro, quando si spostano i baricentri delle politiche energetiche e degli investimenti finanziari. Quando si sviluppa l’immaginario collettivo e l’Europa include per esempio la Russia o la lascia ai margini, alimentando così la sua storica diffidenza di fortezza assediata. Più Europa cui cedere sovranità rissose e inconcludenti, compresa la difesa e le forze armate che la realizzano anche a servizio della comunità internazionale. E così, con poca Europa, diffidenti verso est, respingenti verso sud, abbiamo pensato di raccontarci un mondo «rosa» di politiche fatte da piccoli stati – o sub-stati di tipo «padano» – che potessero realmente sopravvivere agli tsunami annunciati. Una smisurata ignoranza ha gestito sproporzioni storiche evidenti.

E intanto? Mentre la giusta e doverosa riflessione non si interrompe e, anzi, si fa più acuta e incisiva, mentre ascoltiamo con interesse le ragioni dichiarate dell’operazione militare e assistiamo con scarsa convinzione alle modalità di esecuzione, dobbiamo dire che la comunità internazionale ha scelto il male minore. A quel punto – a quel punto! – era necessario agire così. A quel punto non c’era altra via. Certamente per l’Onu e, a seguire, per i paesi «volenterosi».

Perché il quadro è complesso: va visto soprattutto in prospettiva, puntando a favorire attivamente un esito di sviluppo civile e sociale di tutta la sponda sud. Il perdurare della Libia di Gheddafi, potrebbe (avrebbe potuto?) compromettere questa evoluzione positiva per i popoli sotto il tallone di odiose dittature, a vario titolo brodo di coltura del fondamentalismo islamico, e positiva per tutti noi, posizionati diversamente sulle spiagge di questo Mare.

Perché il quadro è anche semplice: ci sono gli affari, gli interessi economico-finanziari legati all’energia e non solo, quelli politici e ideologici. Dichiararli è onesto e getta luce sull’inevitabile negoziato che verrà per risolvere il conflitto in un nobile compromesso. Misconoscere questi fattori, sottrarli al dibattito pubblico, non li elimina. L’intervento armato non li dichiara, si ammanta unicamente di motivi ideali, ma oggettivamente li focalizza. I diritti umani si tutelano con antiche e durevoli prassi quotidiane nonviolente, non con le bombe dell’ultim’ora.

Forse siamo entrati in un tempo nuovo della storia dove gli eventi sembrano scatenarsi e contagiarsi fuori da ogni nostra possibilità di controllo. Fortunatamente, si potrebbe dire se i movimenti che vediamo volgessero a maggior giustizia e libertà. Angosciosamente, se trascinassero nel baratro della morte e di nuove violenze migliaia e migliaia di persone. Certo è che non c’è capacità di diagnosi né coscienza diffusa di quel che accade. Ogni volta quel che si dichiara come intenzione di bene appare sempre più strumentale a interessi peraltro così palesi che non occorre wikileaks per dimostrarli. Ma il discorso politico continua seguendo una sorta di immutabile rito o legge non scritta che però, alla coscienza dei più, suona insopportabile ipocrisia.

Non si capisce, infatti, perché gli insorti in Yemen non debbano essere ascoltati come quelli di Bengasi (o forse si capisce!?). Se qui gridano personalità insigni della società civile, là sono a fianco dei ribelli altrettante personalità fra cui cinque ambasciatori delle sedi più prestigiose in Europa – Parigi, Bruxelles, Ginevra, Berlino e Londra – per chiedere che Saleh si faccia da parte. Non si capisce neppure perché non dar credito ai libertari e ai dignitari sciiti del Bahrein, governato da una dinastia sunnita mentre gli sciiti sono la maggioranza (o forse si capisce!?). Hanno rivolto un appello alla comunità internazionale e al mondo musulmano perché intervenga a evitare un «orribile massacro» nel regno. Ma lo «Scudo della penisola», una forza comune ai Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), è intervenuto per reprimere quelle voci: ne fanno parte Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Kuwait. Alcuni di quelli, però, stanno contemporaneamente con i «volenterosi» della no-fly zone sulla testa di Gheddafi. Non si capisce, insomma, perché non si risponda alle tante «vox clamans in deserto» che vanno dal tristemente noto Darfur alla Costa d’Avorio, dove si aggrava la crisi umanitaria per la lotta ingaggiata da Laurent Gbabgo, presidente uscente che non accetta la vittoria (riconosciuta dall’Onu) di Alassane Ouattara. Solo Terre des Hommes, nelle bidonville della capitale, dà voce a quell’ingiustizia, ma noi non ascoltiamo. Allora? Allora queste considerazioni non significano certo incoraggiamento ad altrettanti interventi di «ingerenza umanitaria». Dobbiamo solo constatare che un concetto di grandissimo interesse – non solo perché fu il papa a formularlo – attende parametri oggettivi perché possa essere riconosciuto e applicato con crescente coerenza. Nell’epoca in cui si vorrebbe riconoscere a coalizioni di eserciti che agiscono su mandato «legale» dell’Onu la funzione di polizia internazionale, qualcosa di più in tal senso si dovrebbe fare. Altrimenti è come se la polizia di stato decidesse, in medesimi episodi di illegalità, ora di intervenire ora no: avremmo cessato di vivere in uno stato di diritto e saremmo in una dittatura.

Se anche questa volta, in una cornice di «legalità internazionale», sono state prese le armi, dobbiamo rafforzare l’impegno politico-diplomatico, favorire i processi di dialogo ad ogni livello, le spinte verso l’unità di intenti. Dobbiamo rinnovare le grandi cornici storiche per realizzare nuovi disegni che prevedano spazi per tutti e per ciascuno.

Già tempo fa – impossibile dimenticarlo in calce a questa riflessione – Giorgio La Pira definiva Lago di Tiberiade il Mediterraneo. Una visione mistica? Certo, ma anche politicamente lungimirante e culturalmente avveduta. Un’immagine inclusiva, di proporzioni intime, familiari, capace di suscitare desideri di pace, stimolare relazioni, reciprocità, produrre musiche melodiose e diverse che, meticciandosi, oscurino, inabissandoli per sempre, i tragici rumori della guerra.